Categorie: Architettura

architettura | Frankie goes to Chelsea

di - 16 Aprile 2007

Il convenzionale clima anti globalizzazione non consente spesso occasioni di riconoscenza verso le multinazionali. Ma una compagnia globale come la IAC (InterActive Corp) riesce a strappare applausi in seguito alla evidente bacchettata vibrata alle nocche finora intoccabili di Frank Gehry (Toronto, 1929). La progettazione della nuova sede corporate newyorkese della compagnia offre infatti la documentazione di un passaggio tra due fasi di progettazione in cui è palese il provvidenziale intervento della committenza. Esprimiamo comunque un’altra ipotesi -poco credibile- come quella di un Gehry ravveduto nei confronti del proprio linguaggio, spesso increscioso ma efficacissimo in termini di comunicazione. La “bacchettata” ha deviato questo episodio produttivo dalla linea un po’ cialtrona dell’architetto canadese, condannandolo di fatto ad una assenza di supporto comunicativo, supporto che lo studio Gehry non lesina alle uscite più appariscenti. L’edificio passa quindi semi-inosservato alla critica.
Un edificio azzeccato comunque, con passaggi interessanti dal punto di vista del linguaggio e della tecnica. Pare proprio che l’architettura stia sviluppando finalmente anticorpi nei confronti del formalismo più futile, unica conseguenza finora dell’uso di strumenti informatici in ambienti di ricerca dai facili entusiasmi. L’attenzione passa alla plasticità ed alla luce. Allora tecnologicamente il cemento torna ad essere inevitabile anche a Manhattan offrendo una superstruttura che basta alla bellezza della realizzazione.
In parallelo avanza la ricerca che porta alla facciata in vetro bianco, che alterna fasce opache e trasparenti e racchiude schermature realizzate con pattern di gocce ceramiche nere stampate assieme al vetro. Sistema d i facciata intelligente prodotto in Italia (dalla Permastelisa, mini-multinazionale gioiello), dagli esiti esteticamente azzeccati, capace di influire sul risparmio energetico. E prodotto in Italia. Alla vista i dieci piani mostrano un’evanescente consistenza articolata in otto torri (5+3) su due livelli differenti, secondo una grammatica di notevole impatto scenico. Il taglio di un quarto di questi corpi sovrapposti ne amplifica l’effetto dinamico. Come da manuale. Lo schema formale delle singole torri ricorda molto un piccolo edificio di Toyo Ito a Matsuyama (ITM building, 1993), un episodio veloce di soli tre piani che qui trova una non pronosticabile conclusione. In scontato contrasto con quanto accadeva all’edificio di Ito, il progetto di interni che accompagna la comunicazione di questo edificio risulta sciatto e dozzinale, tragicamente in contrasto con le pretese formali delle torri-vela e con la preziosità della pellicola schermante.
Siamo appena alle spalle dei Chelsea piers, in uno degli art district più consolidati di Manhattan. La sensazione allora è che lo IAC building possa annunciare una nuova applicazione del normalizzante Soho effect. Il meccanismo speculativo che sfrutta la reputazione hip che l’attività artistica riesce a conferire ad alcuni gruppi di isolati, per poi intervenire estromettendo gli artisti stessi ed impacchettando il tutto sotto forma di destinazione turistica popolare indirizzata allo shopping di lusso e soprattutto ad una intensa attività di real estate.

link correlati
www.iacbuilding.com
www.permasteelisa.com

agata polizzi

[exibart]

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  • Ottimo articolo, aggiornatissimo, consapevole ed interessante, soprattutto perché dotato di una concezione personale ed innovativa delle questioni e dei problemi legati all'architettura dei nostri tempi. Scrivimi, mi raccomando.

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