Negli spazi della Cinémathèque Française è presentata l’opera del poliedrico autore americano, figura chiave della narrazione epica di Hollywood. La mostra documenta al contempo gli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia reale e fittizia di quello stesso luogo.
Dennis Hopper (Dodge City, 1936; vive a Venice, California) ha infatti miscelato gli spunti provenienti dalla vivace scena artistica losangelina e dal cinema underground con l’esperienza degli anni di recitazione nel cinema hollywoodiano delle grandi produzioni.
La rassegna parigina è suddivisa in cinque sezioni, attraverso le quali si costituisce il ritratto di un Paese e della sua artisticità caleidoscopica, mutevole e radicale. Si comincia con i multiformi ritratti di Hopper, l’uomo e l’attore, e di chi ne influenzò il percorso artistico. In un gesto pressoché sacrificale, vita e arte, ruoli e comportamenti si combinano coerentemente. Hopper compie una revisione di forma oltre che di contenuti. Questione di stile: non si leva il copricapo da cowboy, semplicemente lo indossa alla sua maniera. Consapevole cambio di prospettiva, non antitesi. È questione di indicare, ovvero scegliere, come suggerisce il primo quadro,
Green (Entrance), realizzato insieme a
Marcel Duchamp.
Si prosegue con una serie di sue fotografie e tele, attraverso le quali Hopper rinnova l’iconologia americana. La struttura interna alla cornice indica che si potrebbe essere di fronte a immagini degli anni ’50, ma i soggetti sono neri, hippy e personaggi della scena underground.
Poi si passano in rassegna i grandi successi che inaugurano un nuovo approccio al medium cinematografico. L’operazione di Hopper e degli autori della New Hollywood consiste nel sostituire al conformismo dell’American Dream un sogno differente, in cui alla divisione manichea della realtà si sostituisce un mondo ambiguo e a una mitologia imposta dalle immagini mediatiche, l’unicità dell’esperienza. È il momento dell’evasione, della psichedelia e della poetica del detrito della
funk architecture.
A seguire, il discorso si concentra sui graffiti, espressione della controcultura vissuta dalle minoranze etniche della città. Infine, nell’ultima sala, l’attenzione è posta sulla musica dei film del cinema hollywoodiano, segnata dal disincanto degli anni ’70, che sfocerà nelle espressioni punk della prima metà degli anni ’80 e dal riappropriarsi della scena da parte delle grandi case di produzione e distribuzione. È la fine della controcultura o Hollywood sarà in grado di rigenerarsi?
Se Rosalind Krauss afferma che il medium utilizzato da
Ed Ruscha è l’automobile, si può individuare nella Harley, simbolo di individualità anti-borghese, quello di Dennis Hopper.