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fino al 27.I.2008 | Art Machines Machine Art | Frankfurt, Schirn Kunsthalle

di - 10 Dicembre 2007
Il tema è ormai un piccolo classico, e in quanto tale torna di moda con una periodicità piuttosto regolare, continuando a incuriosire artisti, critici e filosofi. Stiamo parlando del rapporto fra arte e macchine, fra creatività e tecnologia, fra genio e programmazione. Una questione ormai antica che, tralasciando radici storiche che affondano molto indietro nel tempo (potremmo risalire addirittura alla concezione greca di tèchne), abbiamo visto nascere, nell’età contemporanea, nel 1839, con la comparsa del primo strumento di riproduzione automatica delle immagini: la macchina fotografica.
Non è difficile intuire le ragioni di un così longevo e inossidabile interesse per la materia: studiare i rapporti che gli oggetti tecnologici intrattengono con l’universo dell’arte e della creatività porta inevitabilmente ad affrontare alcune questioni teoriche di cruciale importanza. Soprattutto in questo momento storico in cui, aldilà di ogni retorica, è impossibile non registrare la massiccia presenza di macchine e oggetti “programmabili” nella vita di tutti i giorni.
Le macchine sono dotate di creatività? Il loro uso influenza l’oggetto d’arte? E come? Gli artisti che utilizzano le macchine si trasformano in ingegneri? Che fine fa la manualità? E il genio individuale? Queste e moltissime altre domande vengono sollevate ogni volta che un macchinario, più o meno sofisticato, entra a far parte dell’universo artistico (o ci prova). A puntare di nuovo l’obiettivo sul tema ci pensa in questi giorni la Schirn Kunsthalle di Francoforte, che presenta una mostra dal significativo titolo: Art Machines – Machine Art.
Il concept è particolarmente puntuale. Come sottolineano i due curatori, Katharina Dohm e Heinz Stahlhut, la macchina rappresenta la produzione in serie -dunque la totale riproducibilità- e consente la piena spoliazione dell’oggetto da connotazioni “personali” o emotive. Non meno importante, e molti lavori in mostra lo confermano, il fatto che esporre un meccanismo porta il visitatore a fruire di un processo e non soltanto di un oggetto, trasformandolo in spettatore di una “performance programmata” e, in qualche caso, in partecipante attivo (quando la macchina necessita di un input esterno per funzionare).
Il percorso dell’esposizione prende avvio dall’artista che più di ogni altro ha indagato il tema, lungo tutta la sua carriera. Stiamo parlando di Jean Tinguely e dei suoi Méta-matics, macchinari a motore progettati per produrre disegni astratti, esposti per la prima volta a Parigi nel 1959 e poi divenuti caratteristici della produzione dell’artista svizzero. In questo caso, oltre all’ovvio commento ironico sulla travolgente cavalcata del progresso tecnologico e sui suoi effetti, Tinguely metteva in scena un efficace paradosso: le sue macchine, producendo disegni stilisticamente affini a quelli firmati dai protagonisti del movimento Informale, smontavano dalle fondamenta l’idea che la pittura astratta e gestuale fosse sinonimo di espressione individuale, di caldo sentimento umano.
Questo nodo concettuale, ossia la tendenza ad associare un’estetica geometrica e regolare ai prodotti delle macchine e una più libera, “disordinata” e spontanea a quelli della mano umana, veniva indagato, negli stessi anni, dallo scienziato-artista Michael Noll, uno dei pionieri della Computer Art. Noll, in un famoso esperimento risalente al 1965, chiese al suo pubblico di distinguere un quadro eseguito da Mondrian dalla stessa opera riprodotta da un computer utilizzando un algoritmo con parametri random. Inutile dire che gran parte dei presenti associò la figura metodica e simmetrica di Mondrian alla macchina e quella più casuale alla mano dell’uomo.
Da allora, moltissimi artisti hanno continuato a indagare il rapporto fra controllo e caso, fra improvvisazione e programmazione, fra impersonalità e marchio individuale. Vale la pena di ricordare, tra gli altri, Nam June Paik, che insieme all’ingegnere Shuya Abe diede vita al robot K-456, o alla coppia Robert Rauschenberg-Billy Klüver (anche qui un team artista-ingegnere) che diede vita all’esperienza dell’E.A.T (Experiments in Art and Technology), o infine a Harold Cohen, che negli anni ‘70 abbandonò la pittura per dedicarsi totalmente alla scrittura di un software in grado di disegnare al suo posto, con il suo stesso stile (rendendo così anche il carattere individuale soggetto ad analisi e programmazione).
La mostra francofortese però salta la parte storica e si concentra su ricerche artistiche recenti (diciassette i partecipanti in totale), riunendole attorno al nume tutelare Tinguely, presente con un corpus di opere provenienti dal museo a lui dedicato a Basilea, dove la mostra traslocherà il prossimo marzo.

Ci sono gli Spinning Paintings di Damien Hirst, quadri circolari ottenuti facendo colare la vernice su una superficie rotante; c’è Roxy Paine con l’imponente Scumak No. 2, una macchina che “sputa” su un rullo una serie di sculture di forma organica che si seccano a contatto con l’aria; e c’è The Endless Study di Olafur Eliasson, un armonografo 2D che trasforma il ritmo di un pendolo in immagini. Passando per altri importanti nomi, come Rebecca Horn, Pawel Althamer e Angela Bulloch, si arriva fino alle sperimentazioni della Net Art e della Software Art, con le opere di Miltos Manetas e dell’austriaca Lia.

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valentina tanni

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 44. Te l’eri perso? Abbonati!


dal 18 ottobre 2007 al 27 gennaio 2008
Art Machines Machine Art
a cura di Katharina Dohm e Heinz Stahlhut
Schirn Kunsthalle
Römerberg – D-60311 Frankfurt am Main
Orario: martedì e da venerdì a domenica ore 10-19; mercoledì e giovedì ore 10-22
Ingresso: intero € 8, ridotto € 6
Catalogo Kehrer Verlag, Heidelberg, € 24
Info: tel. +49 692998820; welcome@schirn.de; www.schirn.de

[exibart]

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