Sono le istantanee di Stefan Roemer, critico di professione e docente presso l’accademia di Monaco, a porci l’interrogativo iniziale: “può un progetto fotografico, e per estensione un’opera d’arte, costruire immagini di una città straniera senza ricadere nei cliché dell’industria turistica?”. Per cogliere un’identità, pare suggerirci la mostra, l’unica soluzione è muoversi come spaesati tra oggetti e relazioni, che possono sì parlarci di un ambiente, ma che ci lasciano comunque incapaci di comprenderlo nella sua interezza. Condannati, in poche parole, ad una parzialità conoscitiva.
La mostra non è una personale, la si può definire piuttosto come un essay visivo, che più che presentare un artista mira a fornire una vera e propria teorizzazione estetica sullo sguardo contemporaneo verso lo straniero. Attraverso una raccolta di fotografie sui matrimoni tradizionali e una collezione di immagini di Ataturk, si vuole costruire un’atmosfera, mostrando al contempo come ogni immagine sia semplicemente stratificazione di informazioni su uno stereotipo già consolidato, che non rende affatto capaci di comprendere una cultura.
Il lavoro di Kutlug Ataman (Istanbul, 1961), in questo contesto, va letto come il tentativo di scardinare queste regole di appartenenza, di dentro-fuori, di escluso-incluso. I suoi video sono veri e propri fiumi di parole, che sopraffanno, riempiono e portano lo spettatore a seguire quei percorsi destrutturati che Roemer ha individuato come unico strumento per comprendere le città straniere.
Incapaci di interagire, l’identità non è qualcosa che possediamo; possiamo al massimo indossarla durante il giorno e depositarla ai piedi del letto la sera. Proprio come in Women who wear wigs (1999), dove quattro donne, accomunate dal fatto di indossare una parrucca, ci raccontano la loro vita e la loro femminilità celata, ora da una mascolinità mal digerita, ora da un chador, ora da un tumore.
In questo inumano lavoro di ripresa -oltre 60 ore di video- si possono cogliere sempre e solo spezzoni: per quanto ci si soffermi davanti a Never on My Soul (2005), in cui vediamo una giovane transessuale che si depila, fuma, ricorda, non saremo mai in grado di coglierne la personalità. Siamo condannati ad essere esclusi. Come in Martin is Asleep (1999), dove un uomo addormentato proiettato in video su un letto in miniatura ci fa sentire così tanto grandi e impotenti, che ancora una volta dobbiamo riconoscere la nostra incapacità di avvicinarci a ciò che è straniero.
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alberto osenga
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