Questi suoni hanno per me lo stesso senso e valore di un’opera, ma si riallacciano anche alla poesia lettrista, fatta altresì di suoni onomatopeici. Il risultato l’ho impresso su un vinile, che ho presentato, al posto dell’attuale merlo, durante le 30 ore non-stop dell’anteprima dell’inaugurazione del Palais de Tokyo, il tutto era accompagnato dal mimo Ivan Bacciocchi che interpretava i suoni in questione. Il titolo? S’ispira ad un episodio dei fumetti di Superman in cui Clark Kent cerca di azzittire il suo merlo indiano». Un lavoro sulla scia di 4’33 di John Cage e certamente di Robert Rauschenberg, tra movimento Fluxus e umorismo, clin d’œil a Il pappagallo di Kounellis e al valore di libertà. Difficile etichettare Maxime Rossi, eppure lo si può considerare concettuale per la sua solerzia, e al contempo sobrietà, nello spendersi fisicamente nella creazione. E poiché interviene sul soggetto-oggetto dell’opera senza deformarlo ma anzi conferendogli significati aggiunti, cambia le regole e per questo provoca, indigna il visitatore, spingendolo a violare il diktat imposto dall’artista e cioè quel muro del silenzio imposto al merlo ma che lo spettatore è libero di infrangere perché la porta della serra è semiaperta. Ma il visitatore saprà oltrepassare la soglia per interpretare e stravolgere l’opera? La natura diventa oggetto che esegue l’opera per l’artista, ma non più ispiratrice, come per romantici rappresentati qui da Chopin, ma asservita, trasfigurata. I diversi piani di lettura dell’opera esplorano il rapporto tra uomo e natura, ma anche dell’uomo con se stesso immerso in un silenzio composto da suoni afoni, parte oramai di una banale routine.
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