Categorie: Arte antica

Il giovane Michelangelo a Bologna: un capitolo da rileggere

di - 28 Dicembre 2025

Curioso che tutta la comunicazione, compresa la copertina del catalogo della mostra Michelangelo e Bologna, usino come immagine La Madonna della Scala, bassorilievo in marmo presente nell’esposizione e tuttavia eseguito da Michelangelo Buonarroti intorno al 1490 non certo a Bologna, e conservato a Firenze in Casa Buonarroti. Dunque sarà utile chiarire: Michelangelo Buonarroti a Bologna soggiornò e lavorò tra il 1494 e il 1495, producendo tre sculture per l’Arca di San Domenico, e nel 1506 per una scultura in bronzo raffigurante Giulio II, distrutta poi il 30 dicembre 1511 dalla furia dei bolognesi. Cristina Acidini, Elena Rossoni, Alessandro Cecchi, Vincenzo Lagioia, ricostruiscono nei relativi fruttuosi saggi in catalogo la vicenda della partenza di Michelangelo da Firenze, il rapporto con Giovan Francesco Aldrovandi suo ospite in Bologna, il clima artistico della città, il ritorno a Bologna nel 1506 pressato dalla richiesta di Giulio II. Inoltre, Anna Maria Sacco analizza le lettere inviate e ricevute da Michelangelo a partire dal primo soggiorno bolognese e Renato Villoresi alcune monete e medaglie coniate sotto Giulio II. In più, le schede critiche, relative ad opere provenienti dalla Pinacoteca nazionale di Bologna e da altre istituzioni, costituiscono un fertile terreno, un tentativo di far capire al visitatore in quale ambiente artistico si muovesse a Bologna il Buonarroti.

Michelangelo Buonarroti, Madonna della scala, 1490 circa, marmo, 56,7×40,1 x cm; Firenze, Casa Buonarroti

Michelangelo e Bologna, una storia ben conosciuta che tuttavia affrontata oggi apre a scenari e riflessioni nuove, perché è vero ciò che scriveva Marc Bloch in Apologia della storia: per accostarsi alla comprensione del passato occorre essere coscienti del proprio presente. E sarà necessario essere consapevoli di quanto lavoro, di quanta bellezza, di quanta buona politica per l’arte sia stata nutrita in passato la forma urbana di questo prodigioso centro storico bolognese, in cui il portico, grazie a un editto del 1288, è un bene comune. Tutto questo anche per valutarne lo scempio odierno, la diffusa sozzura nelle strade maleodoranti, gli spazi urbani occupati con espansione progressiva dalle mangiatoie per turisti.

Courtesy of Palazzo Fava

Ma entriamo in Palazzo Fava, sede dell’esposizione in corso fino al 15 febbraio 2026, dove nel fregio di Annibale, Agostino e Ludovico Carracci con le storie di Giasone (si è negli anni ’80 del ‘500), un Bacco monocromo cita il Bacco di Michelangelo del 1496-97, oggi al Bargello; ed è per noi un frammento della continuativa, sublime, gittata che la poetica dell’artista toscano proietta nell’arte successiva. Fino a Henri Moore, che in una conversazione del 1966 con Philip James dichiara: «ero attratto verso Michelangelo da un interesse ossessivo. Andai in Italia, mi resi conto allora che nessuno era stato mai tanto abile e che qualsiasi scultore dopo di lui si sarebbe sentito come un corridore che sa che qualcun altro ha in precedenza ottenuto un record imbattibile». Fino a Francis Bacon, che nelle ultime sbalorditive crocifissioni disegnate da Buonarroti individuò ulteriori possibilità di tradurre l’indicibile in pittura. Fino alla visionaria narrazione spirituale di Bill Viola, cresciuta nell’aura di arte italiana.

Courtesy of Palazzo Fava

Arrivato nel 1594 a Bologna dopo essere andato via da Firenze appena prima della cacciata di Piero dei Medici, Michelangelo viene ospitato da Giovan Francesco Aldrovandi (sodale dei Bentivoglio, signori della città) nella casa di via Galliera, oggi un palazzo di forme settecentesche, a due passi dal citato palazzo Fava. Grazie all’Aldrovandi, che nel 1486-87 a Firenze era stato Podestà, Michelangelo viene incaricato di eseguire tre sculture per l’Arca di San Domenico, iniziata da Nicola Pisano nel 1265 e ampliata tra gli altri da Niccolò de Apulia, detto Niccolò dell’Arca. Un angelo reggicandelabro, san Petronio, san Procolo. Tre sculture per fortuna considerate dalla Soprintendenza inamovibili dall’Arca, ed evocate in mostra da tre calchi. Occorrerà quindi recarsi nella chiesa di San Domenico per assistere all’epifania della “personale rivoluzione” di Michelangelo, di cui il restauratore Antonio Forcellino, in Michelangelo. Una vita inquieta, scrive: «un uso arditissimo dei trapani per ricavare i sottosquadri uniti e approfonditi con lo scalpello».

San Petronio, Arca di San Domenico. Courtesy of Palazzo Fava

Anche in questo si coglie l’essenza molto precoce della rivoluzione tecnica di Michelangelo (…) la capacità di usare la gradina o lo scalpello fino alla pelle del marmo stesso, laddove gli altri artisti vi si avvicinavano prudentemente con la raspa. Il rischio della tecnica di Michelangelo è quello di rovinare con un colpo troppo forte la superficie finale della figura, perché la punta dello strumento ne oltrepassa il limite. Ma questo non gli succede mai, almeno per quanto ne sappiamo. Conosciamo invece il vantaggio di questa spericolatissima tecnica: la possibilità di un brusco cambiamento, di un rapidissimo passaggio dal concavo al convesso, laddove la raspa degli artisti precedenti irrigidiva le forme e intontiva il disegno eliminando la vibrazione che rende palpitante il marmo di Michelangelo».

San Procolo di Alfonso Lombardi. Courtesy of Palazzo Fava

Una vita inquieta, si diceva, che emerge dal versante forse più significativo di questa piccola mostra: le lettere di Michelangelo, la sua grafia, la sua palpitante parola fluita in una scrittura meravigliosa, che appare tale ancora di più oggi, a fronte della diffusa disabitudine alla scrittura manuale, disegno originario della nostra personalità in via di abolizione. La corrispondenza con il padre Lodovico, con i fratelli, le notizie intorno alla sua permanenza in Bologna. E il racconto angosciato della “gittata” in bronzo per la statua di Giulio II, in stanze al Pavaglione dietro San Petronio, la Chiesa voluta a suo tempo dalla città molto più che dal papato, una zona che oggi è piazza Galvani, e c’è una lapide che ricorda Michelangelo. Una lingua scritta fiorita nella lettura di Dante, Boccaccio, Petrarca, di segni e inchiostri su carte fragili sopravvissute nei secoli, da cui Michelangelo ci parla, come in una piega del tempo.

Courtesy of Palazzo Fava

Docente di Storia del Disegno e di Beni Culturali e Ambientali presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove dal 2001 è Curatrice del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe antichi e contemporanei. Dal 2012 al 2016 direttore artistico della Casa Studio Museo Giorgio Morandi in Grizzana Morandi. La sua ricerca analizza le radici antiche dell’arte attuale e le molteplici relazioni tra arte, paesaggio, ambiente.

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