courtesy Comune di Siena; photo Mauro Magliani per The Frick Collection
Il complesso monumentale di Santa Maria alla Scala a Siena è quello che Baldassarre Castiglioni avrebbe definito “una città in forma di palazzo”, ovvero un organismo complesso e stratificato che occupa ben sette livelli di fronte alla Cattedrale della città e che è cresciuto dal Trecento a oggi prima come il grande ospedale del territorio senese e, negli ultimi cinquant’anni, come un vasto sistema museale cittadino che contiene diversi musei, collezioni, archivi, patrimoni librai, spazi per mostre temporanee e per l’alta formazione. Questa continua, frenetica, stratificazione ha lasciato tracce importanti non solo per la storia della città ma anche per la storia dell’arte occidentale, vista la grande ricchezza di questa istituzione che ha avuto la forza di chiamare grandi artisti del Rinascimento italiano a contribuire ala sua gloria.
Tra i tanti contributi, molti ancora da riscoprire, la serie di affreschi e di opere del Vecchietta, artista attivo durante il Quattrocento senese, ma soprattutto uno degli autori più interessanti e originali della vita artistica e culturale di questo secolo italiano, è uno dei cuori più preziosi e unici del complesso di Santa Maria alla Scala.
Vista l’eccezionalità di questo patrimonio e la sua centralità simbolica e culturale è apparso evidente che l’opera di rigenerazione e di ripensamento di questo polo museale, a cinquant’anni dalla sua nascita, diventasse obiettivo primario da parte di Cristiano Leone, Presidente dell’istituzione e stratega di un’ambiziosa missione di ripensamento di Santa Maria alla Scala per i prossimi decenni.
Gli affreschi del Vecchietta intervengono infatti in due luoghi fondamentali per l’antico impianto ospedaliero: il Pellegrinario, realizzato nella prima metà del Trecento e poi affrescato dal prima dal Vecchietta e quindi da Domenico di Bartolo tra il 1434 e il 1444, e la sacrestia Vecchia della chiesa dell’ospedale che hanno custodito i reliquiari dell’istituzione per cui Vecchietta affrescò le pareti e le volte della sala tra il 1445 e il 1449, oltre che dipingere le ante lignee della Arliquiera nel 1445, mobile che custodiva le stesse reliquie all’interno del prezioso scrigno architettonico. Ultimo frammento di un artista che lungo tutta la sua carriera ha legato il suo destino all’Ospedale è nella statua in bronzo del Salvatore, che attualmente è ospitata impropriamente sulla parte sommitale dell’altare maggiore della chiesa, ma che originariamente decorava la scomparsa cappella funeraria del pittore, primo esempio nella storia dell’arte di spazio commemorativo di un artista occidentale realizzata intorno al 1476. Di fatto il complesso di Santa Maria alla Scala possiede la prima e l’ultima opera del Vecchietta, oltre che essere stata committente di una serie di pale e sculture che attualmente sono distribuite tra la Cattedrale, il Battistero e la Pinacoteca Nazionale di Siena, a testimoniare l’opera di un artista che nel suo tempo era più riccamente remunerato di Donatello ed era disputato per il suo talento tra le istituzioni senesi e la curia papale romana. Quelle che sono le tracce importanti di una delle esperienze natali del Rinascimento italiano meritavano un ripensamento museografico e un nuovo allestimento visto l’invecchiamento dell’impianto d’illuminazione del Pellegrinario pensato da Guido Canali negli anni Novanta e la confusione di teche e manufatti che regnava nella Sacrestia Vecchia. Questa urgenza si è incontrata con due protagonisti necessari che dessero sostanza scientifica e progettuale a un’azione delicata che chiedeva consapevolezza per il luogo e attenzione per un processo di rigenerazione complessiva che sta facendo i suoi primi passi: lo storico dell’arte Giulio Dalvit, Associate Curator alla Frick Collection di New York e studioso del Rinascimento italiano e il progettista Francesco Librizzi, uno degli autori italiani più interessanti e maturi per gli allestimenti museali e gli interventi temporanei.
Quello che la presidenza di Santa Maria alla Scala ha infatti deciso di fare è stato di dare spazio a due azioni meno scontate della “classica” grande mostra temporanea dedicata al Vecchietta, ovvero quello di supportare, insieme alla Frick Collection, una fondamentale pubblicazione dedicata all’opera completa dell’artista senese e, insieme, di ragionare con Dalvit come curatore e il progettista selezionato per un nuovo allestimento permanente che mettesse ordine e desse la giusta visibilità al patrimonio straordinario del museo.
Un libro e un progetto stabile degli spazi sono un atto fondativo che struttura strategicamente il museo esistente riguardo al suo futuro e, insieme, offrono uno strumento scientifico di eccellenza per la lettura di uno degli autori più importanti e meno indagati del Rinascimento italiano.
Si tratta di un cambio di paradigma importante che lavora in profondità che non si mette nella scia del classico falò delle vanità che purtroppo è rappresentato dalla maggior parte delle mostre temporanee che attraversano il nostro Paese.
Il libro di Giulio Dalvit, uscito in doppia edizione italiana e inglese, è un volume costruito con una sequenza cronologica e tradizionale ma necessaria per leggere la ricchezza e unicità di un autore che affermò il proprio essere sia pittore che scultore, in un tempo di mestieri separati, in una città che stava vivendo uno dei momenti di massimo fulgore politico ed economico. Il Vecchietta non solo è aggiornato di quello che stava avvenendo tra Firenze e Padova tra Masaccio, Masolino e Donatello, ma è soprattutto autore e sperimentatore capace d’influenzare la scena italiana in maniera decisiva e producendo opere che hanno un impatto significativo sulla scena figurativa italiana del tempo.
La sua sfortuna è quella della città che lo ha protetto che in pochi decenni vede un crollo economico e politico rovinoso che la porterà in un cono d’ombra secolare che vedrà nella storia dell’arte italiana la presenza dominante di Firenze prima, seguita da Venezia e Roma, malgrado Vasari la citi brevemente per l’uso sapiente della prospettiva nei suoi affreschi, una nota troppo asciutta mentre l’attenzione critica per questo autore è solo della seconda metà del 900’ e la prima, importante, monografia è proprio da ascrivere a Giulio Dalvit e alle sue attente ricerche. L’expertise di Dalvit è stato fondamentale per guidare, insieme al tema interno di storici dell’arte dell’istituzione museale senese, un attento lavoro di rilettura degli spazi e d’individuazione deli interventi da realizzare all’interno dei locali storici. Il progetto insiste quindi su tre luoghi specifici con altrettante azioni che si legano coerentemente tra di loro: il Pellegrinario è stato liberato delle luci preesistenti sorrette da un impianto elegante ma fortemente invadente della sala, con un sistema di pareti continue munita da una seduta che permetta a chiunque di osservare con attenzione la serie degli affreschi, mentre le luci sono state ripartite tra una linea continua che illumina uniformemente le pareti con un cambio di gradazione a seconda del momento della giornata e un sistema di elementi verticali che ritmano le volte spazialmente e insieme le illuminano.
Nella Sacrestia Vecchia l’intervento è stato più radicale, con l’eliminazione delle vecchie teche che invadevano lo spazio centrale e la costruzione di due nuovi contenitori espositivi posti simmetricamente ai due fianchi che permettono di osservare i magnifici affreschi del Vecchietta sulla volta e lungo le pareti, mentre le due ante dell’Arlichiera sono state poste a definire il perimetro della sala grazie a un sistema metallico che le espone con la massima trasparenza e possibilità di visione. Le due nuove teche sono oggetti con una presenza volumetrica e materica sofisticata, trattate come preziosi manufatti in cristallo, metallo nero e velluto rosso in cui sono state selezionate le reliquie presenti nel momento in cui il Vecchietta fu chiamato a intervenire per rendere evidente il dialogo simbolico tra la narrazione teologica sulle pareti e i manufatti custoditi veri oggetti di culto dei pellegrini. Le tavole dell’Arliquiera sono sospese da un elegante sistema di elementi metallici e tiranti che definiscono lo spazio esistente e, insieme, proteggono visivamente l’accesso al terzo luogo dell’intervento, rappresentato dalla Chiesa dell’Ospedale.
Il terzo intervento di Librizzi è una vera sorpresa che chiama la scoperta, poiché l’obiettivo è quello di portare i visitatori a vedere il Cristo bronzeo del Vecchietta appoggiato sulla cima dell’altare maggiore e quasi invisibile allo sguardo dei più. La presenza di una vecchia scala lignea retrostante l’altare e di fronte al coro cinquecentesco ha consentito al progettista di suggerire una sostituzione con un nuovo oggetto che è appena percettibile da lontano ma che, una volta svoltato il fianco dell’altare, si presenta nella sua elegante provocazione. Una struttura triangolare in metallo nero che porta due scale che permettono di salire e vedere da molto vicino la struggente scultura bronzea dal Vecchietta, oltre che di tutta la chiesa che si presta agli occhi del visitatore. La sensazione di vertigine, intellettuale e simbolica, è assoluta, come assoluta è la forma geometrica individuata da Librizzi, quasi un’attenta provocazione contemporanea in un luogo fortemente storicizzato, ma senza che si abbia mai la sensazione che il gesto sia inutile o arrogante. I tre interventi e la pubblicazione su cui si appoggiano sono un contributo fondamentale alla riscoperta del Vecchietta e alla rilettura del complesso di Santa Maria alla Scala che con questo primo, decisivo passo, si sta avviando a un processo di ripensamento che speriamo possa offrire a Siena l’ampiezza e la ricchezza di un tesoro che attende ancora di essere letto nella sua straordinaria ricchezza. Buona la prima!
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