A Fanano, una nuova opera di Michele Ciacciofera ridisegna il paesaggio

di - 29 Luglio 2025

Uno dei difetti che accompagna la penuria della spiritualità all’interno dell’immaginario artistico collettivo potrebbe basarsi, con una buona probabilità, sul fatto che le opere d’arte tendono a gridare, imporsi a gran voce senza forse avere qualcosa per cui valga la pena gridare. Il tono di voce impone una moderazione, una certa anche sicurezza nel riuscire a parlare in un certo modo. Certe opere combattono questa imposizione rivelandosi con molta naturalezza e pacatezza. Parlano sommessamente e delicatamente come emergessero direttamente dal suolo – sorgenti invisibili. Nel caso dell’opera di Michele Ciacciofera per Fanano, L’altare del tempo e dell’acqua feconda, questi tumulti derivano direttamente dall’acqua.

La poesia dell’artista sardo, che vive e lavora a Parigi, si colloca “nel-mezzo”, in un anfratto fragile ma necessario: lì dove la creazione non è più narcisistica autorialità ma una forma di alleanza. Per l’appunto non un’imposizione ma una nuova forma di ascolto. Un ascolto che lascia parlare ciò che circonda l’opera – il famoso “contesto” – che, a sua volta, lavora insieme alla natura per accoglierla come forza attiva, spirituale; forse, persino politica.

L’Altare del tempo e dell’acqua feconda non è una forma di scultura. L’opera diventa un dispositivo rituale in cui il tempo si incide nella pietra; un altare laico, simbolico, che abita e si lascia abitare. Un’opera che si modula e si costruisce rapportandosi al paesaggio in cui è inserita e che dona agli stessi materiali da cui è composta la possibilità di sviluppare un dialogo sia con l’ambiente che con l’artista e lo spettatore. Si crea una tensione continua tra memoria ancestrale e un’urgenza presente – e futura. 8 monoliti – figure che sembrano creature organiche che si muovono lentamente – che affondano le radici nel gesto lento dell’acqua che attraversa i fiumi mistici del mistero dell’origine del mondo.

Archeologico e cosmico, ecologico e spirituale, acqua e pietra. Ciacciofera approfondisce dicotomie più o meno agli antipodi per trasformarle in una netta visione del mondo. Fondata sull’interconnessione e sulla necessità di ripensare il nostro tempo e il nostro rapporto con la realtà, l’opera è il frutto di una visione dell’artista condivisa con la curatrice, Bianca Cerrina Feroni, che ha accompagnato il percorso mettendo in evidenza le implicazioni sociali e il messaggio – ancora, forse anche – politico del lavoro.

L’Altare è una soglia, uno spazio in cui la memoria degli oggetti cambia invitando lo spettatore a riconnettersi, innanzitutto, con sé stesso e con ciò a cui ormai non si presta più attenzione: l’ascolto, che è dubbio, empatia – intelligenza. Approfondiamo con l’artista e la curatrice alcuni punti del lavoro.

Michele Ciacciofera, ph. Roberto Leoni

Nell’intervento che ha anticipato la venuta del progetto, lei ha parlato della collaborazione con la natura, come se i suoi lavori non fossero, in un certo modo, propriamente suoi. È un profondo atto di umiltà, il suo, che, allo stesso modo, sembra quasi giocare con la natura stessa: le sue opere stanno in un equilibrio fragile e precario, delicato quanto il gesto stesso della natura che, con pazienza e tempo, si trasforma e muta. Quale è il suo gesto e dove risiede la sua importanza?

Michele Ciacciofera «Lei ha centrato uno dei presupposti di questo lavoro: immaginare il gesto creativo come già inscritto nel tempo e nel processo naturale che mette insieme l’acqua e la pietra, tutti insieme parte di un cosmo interconnesso; un intenso lavoro collaborativo con il fiume e la montagna. In questo, il mio ruolo è stato principalmente quello di ascoltare la natura, estraendo la formula segreta che lega i due elementi per tradurla – attraverso quest’opera e quindi con il mio linguaggio – alla comunità di queste montagne – dunque allo spettatore.

È una traduzione sussurrata che non vuole imporsi ma semplicemente rivelarsi, senza clamore, mostrandosi come se fosse scaturita naturalmente da questo ambiente, inserendosi in un ciclo temporale infinito. La precarietà e la fragilità sono cifre della formula di cui parlavo prima. In realtà, però, queste pietre nascondono un’anima misteriosa, una forza potente e immutabile che rappresenta la capacità della natura di trovare sempre l’equilibrio».

La bellezza del progetto dell’artista risiede forse nell’essere riuscito a costruire metafore lontane attraverso gestualità e ritualità ataviche in cui emerge certamente l’elemento dell’acqua. Fondamentale nella poetica dell’artista, in questo caso sembra riecheggiare la famosa frase di Lucrezio, gutta cavat lapidem. Quella stessa ritualità che rimanda ad un forte senso di spiritualità. Che cos’è questa ritualità?

Bianca Cerrina Feroni «Ci sono due elementi fondamentali che si incontrano in queste opere: la pietra e l’acqua. Entrambi rievocano antichi rituali e parlano anche del presente. Nella poetica di Ciacciofera ci sono sempre due temporalità che si incontrano. Una è rivolta al passato remoto, l’altra guarda verso il futuro: la sua arte funge da trait-d’union.

In questo caso, gli otto totem, cosi come le otto coppelle scavate nella pietra della base, richiamano antichi rituali e attualizzato la necessità di mantenere un rapporto spirituale con il cosmo, oltre che un atteggiamento di protezione verso una risorsa essenziale per la vita stessa, per la vita sulla Terra».

Michele Ciacciofera, L’Altare del tempo e dell’acqua feconda, ph. Roberto Leoni

Il dialogo tra l’artista e la natura è lo stesso dialogo tra l’artista e il curatore e tra la natura e i suoi elementi. L’Altare del tempo e dell’acqua feconda è una sorta di ciclica eterna ed eternamente irrisolvibile – oltre che, spesso, insormontabile. Presuppone un certo concetto di trascendenza intesa come impermanente. Cos’è questa natura transitoria e come si colloca nella fruizione delle opere?

Michele Ciacciofera «Parlavo prima dell’interconnessione cosmica che immagino nella natura, in cui tutti gli elementi, uomo incluso, trovano posto come in una giostra, nonostante nel corso degli ultimi secoli l’uomo stia agendo in modo miope mettendo in crisi l’equilibrio del sistema con azioni autoreferenziali o totalmente antropocentriche. La natura si assesterà comunque, forse anche potendo prescindere da alcune specie, tra cui la nostra. L’Altare vorrebbe ricordare questo allo spettatore, apparendogli in tutta la sua mistica essenza.

Il rapporto con la curatrice della mostra, a cui mi lega tra l’altro una lunga e solida amicizia, è stato fondamentale in ogni fase dell’opera. Mi diverte ancora ricordare quando, nel 2024, in uno dei tanti sopralluoghi, entrammo nelle gelide e impetuose acque del torrente, con grandi stivali di gomma, per familiarizzare con la forma delle pietre levigate dallo scorrere dell’acqua.

Bianca Cerrina Feroni «Condivido con l’artista lo stesso atteggiamento non solo nei confronti dell’ambiente e della cultura ma anche, e soprattutto, dell’arte: l’idea che le opere d’arte abbiano una funzione che oltrepassa il godimento estetico per apportare qualcosa alla vita sociale. Le forme belle aiutano a vivere la dimensione fisica, mondana, della vita dando un senso che le oltrepassa».

Modellando la pietra, l’acqua ne svela la bellezza, proprio come il tempo scolpisce la memoria umana”. In questa sua dichiarazione penso sia racchiusa tutta l’urgenza poetica che alberga nell’opera; insiste sul ri-considerare non solo il gesto stesso della realizzazione dell’opera o il suo rapporto con il gesto dell’artista, ma anche su una nuova concezione di ecologia. Che cos’è questa ecologia?

Michele Ciacciofera «Il rapporto tra l’acqua e la pietra è fondamentale per comprendere non solo i processi geologici e naturali ma anche la storia dell’uomo. L’acqua è, innanzitutto, la fonte basilare della vita, il principio da cui tutto ha origine; essa è stata oggetto di culto per ogni civiltà attraverso riti di devozione che hanno costituito i punti di più alta spiritualità nelle civiltà antiche e insieme alla pietra, nonché al fuoco, ha consentito all’uomo di evolversi, di sviluppare ogni forma di vita sociale, di scrivere la storia sino al presente.

La connessione con il tempo accomuna questi due elementi: alla durabilità e immutabilità della pietra l’uomo ha affidato la custodia della storia e quindi della memoria come nel caso delle stele o delle lastre sepolcrali. L’immagine dell’acqua del fiume che scorre rappresenta invece, metaforicamente, il tempo come ci ricorda Grazia Deledda nel suo romanzo “Canne al vento”: “la vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo della sua assenza”. Considero quest’opera simbolica per la memoria del presente, per la cultura della comunità di Fanano ma più generalmente per la comunità planetaria.

Il presente che stiamo vivendo ci pone davanti a gravi responsabilità, legate, come dicevo prima, al nostro rapporto con la natura e quindi anche con due elementi fondamentali quali l’acqua e la pietra. Non possiamo più chiudere gli occhi davanti ai processi erosivi del territorio e in particolar modo delle montagne, alle esondazioni dei fiumi e alle alluvioni, tutto collegabile allo sconsiderato depauperamento delle risorse naturali e all’insostenibile sfruttamento dell’ambiente.

Ciò deve da subito imporci, nonostante il grave ritardo, un ripensamento in termini di reciprocità responsabile con l’ambiente della nostra vita, anche da questo nasce l’ispirazione per l’Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda che vuole essere innanzitutto il manifesto sociale per un ecologismo maturo e attivo. Credo fermamente nel potere sociale e politico dell’arte!»

Michele Ciacciofera, L’Altare del tempo e dell’acqua feconda, ph. Roberto Leoni

Allo stesso modo, quello che appare oggi sempre più evidente è la riscrittura di un certo approccio all’arte che presuppone una sensibilità ecologica più acuta. Un po’ quella che Timothy Morton ha definito una ecologia oscura, fondata sull’oggettiva analisi dell’iperconnessione e dell’iperstratificazione delle cose nella realtà che ci circonda. Quale è, nel suo lavoro e nel suo pensiero, il senso e l’origine di questo atteggiamento? Soprattutto legato all’opera dell’artista a Fanano.

Bianca Cerrina Feroni «L’opera è, di fatto, una co-produzione con la natura. Gli elementi sono stati trovati e selezionati dall’artista sul posto e vengono restituiti, trasformati in arte, al loro ambiente. Benché la pietra suggerisca una certa immobilità, l’opera è viva e continuerà ad interagire con tutti gli altri elementi con il passare del tempo. L’intervento umano è, quindi, minimo e supporta l’idea di inserirsi in un contesto e rivelarne l’anima profonda.

La pietra e l’acqua, nella loro materialità sono fondamentali per Fanano ma grazie al significato spirituale di cui sono portatori, creano una connessione più intensa e più ampia. Direi che interazione è la parola che meglio sintetizza la pratica artistica di Michele».

L’opera esiste come hic et nunc, eternamente legata allo stesso luogo in cui viene ad essere collocata e con cui, oltretutto, intraprende un legame pre-esistente. Preserva in un certo modo l’aura benjaminiana – ormai quasi antica se pensata nell’epoca della riproducibilità digitale dell’opera, come dice Groys. Quale è la natura di questo legame e quale è la natura stessa del luogo in cui l’opera è inserita?

Michele Ciacciofera «Otto, cifra dell’infinito, è il numero dei miei giganti che si stagliano verso il cielo così come il numero delle coppelle presenti sulla base dell’Altare. Il rapporto col tempo è anch’esso centrale in quest’opera che sembra essere stata lì da sempre e vorrei che li restasse per l’eternità.

La scelta del sito è stata tanto precisa quanto meditata: uno slargo naturale, quasi un anfiteatro, lungo il percorso naturalistico del parco fluviale del torrente Leo, previsto dalla strategia di valorizzazione e rigenerazione dell’ecoarea Living Lab, che collegherà Fanano a Modena. Anche la scelta del materiale utilizzato, la pietra arenaria di Fanano, prelevata direttamente nel sito di costruzione dell’opera, si è rivelata necessaria per la sua connessione con la storia, l’economia e l’architettura locale. Essa permetterà all’opera di inserirsi armonicamente nel contesto antropologico e paesaggistico-naturalistico d’insediamento. Ho immaginato infine anche la collocazione di tre monoliti adagiati al terreno prospiciente all’opera con funzione di panche per creare uno spazio di sosta meditativa e spirituale che coniughi l’interazione con l’opera alla contemplazione del paesaggio circostante.

Nel legame con il luogo non posso non includere il bellissimo rapporto creatosi con la comunità locale, con l’Urban Stone Sculture Park, con le autorità locali, con i tecnici, con le maestranze locali – gli scalpellini Matteo Boldrini e Gionata Orsini -, con tutti coloro che hanno contribuito al progetto e infine con due eccezionali giovani come Samuel Dumas e Michele Tordiglione che infaticabilmente hanno contribuito a mettere insieme ogni tassello dell’Altare».

Bianca Cerrina Feroni «È la prima volta che l’artista si confronta con un’opera pubblica di queste dimensioni. La possibilità di creare, in un parco naturale dalla storia geologica cosi’ antica – ricordo che le rocce di Fanano si sono formate 23 milioni di anni fa -, gli ha permesso di riunire due aspetti fondamentali della sua ricerca: quello ecologico e quello archeologico.

Michele è stato un ecologista ante-litteram, il suo approccio all’arte è sempre stato olistico. L’essere umano e le opere d’arte fanno parte di un ecosistema nel quale ogni forma, organica o inorganica, è legata al tutto, come fosse una monade, infinitamente interconnessa».

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