A.R. Penck – Museo d’arte

di - 18 Novembre 2021

Il Museo di Mendrisio presenta una grande retrospettiva delle opere di A.R. Penck (1939-2017), a cura di Simone Soldini, Ulf Jensen e Barbara Paltenghi Malacrida, dal 24 ottobre al 13 febbraio 2022: 40 dipinti, 20 sculture, e più di settanta opere su carta e libri d’artista.
E facile fraintendere l’opera di A.R. Penck. I suoi simboli, i geroglifici, le figurette di uomini stilizzati, testa e sesso in evidenza, fanno pensare a un’arte primitivista, infantile. Ma non è così. Almeno non era questa la sua intenzione. Il suo lavoro ha un’origine tutt’altro che spontaneista. È frutto di una riflessione filosofica, scientifica, politica se vogliamo, cominciata fin dal momento in cui cambia il nome (in realtà si chiama Ralf Winkler) e assume lo pseudonimo di A.R. Penck, preso in prestito da uno scienziato, biologo, a cui seguiranno altri pseudonimi, nomi e sigle varie. Anche per sfuggire al controllo dei servizi segreti sovietici.

PENCK, Cosmic Blues, 1981, 2021 Pro Litteris Zurich

L’artista, fondamentalmente autodidatta, si propone qualcosa di ben più complesso: inventare attraverso la pittura un elaborato sistema di comunicazione che sia in grado «di rendere visibile la logica delle interazioni umane», un linguaggio concettuale, comprensibile a tutti, che riproduca il dialogo. Il suo interesse per la cibernetica, anticamera dell’Intelligenza Artificiale, è piuttosto sintomatico. Questo armamentario pseudo-filosofico lo battezza «Standart», arte come presa di posizione (Stand) oppure stendardo, vessillo. La sua idea di partenza, abbastanza condivisibile, è che ognuno di noi pensa per immagini prima che per parole e prima ancora per «moti astratti».
Penck nasce a Dresda, nella Germania Est, lui si definisce comunista, seppure in continua polemica col regime. Se il socialismo aspira a un’arte vicina al popolo, Penck, almeno all’inizio, condivide il principio, ma lo attua con uno stile, come abbiamo visto, schematico e originale, ispirato persino agli scarabocchi sui muri delle latrine. Più popolare di così… Ma che la critica conservatrice della DDR non poteva apprezzare, legata com’era a una certa idealizzazione retorica del realismo socialista. Ovvio che non venga apprezzato in patria mentre in Occidente trova immediatamente molti estimatori.

PENK, Ich Selbstbewussstsein, Ph. Ugo Perugini

Certamente Penck, che si può definire neo-espressionista alla stregua di Baselitz e Immendorff, è debitore dell’avanguardia storica (Malevich, Kandinsky, Picasso, Dalì, Picabia, Duchamp) ma la reinterpreta come frutto di un’azione collettiva, mentre si tratta di esperienze individuali e ormai concluse. Le sue weltbildt (immagini universali) con i suoi omini stilizzati, bidimensionali, anonimi, con le mani alzate verso il cielo (per aspirare all’alto o per arrendersi?) spesso sono viste come sintesi stilistiche e non come ricerca di un nuovo sintetico mezzo di comunicazione come avrebbe voluto. La sua influenza su un’artista come Keith Haring è evidente.
E quando nel 1980 lascerà la DDR, la sua arte quasi per reazione diventerà monumentale. Il suo linguaggio formale scarno, fatto di ripetuti segni e figure simboliche e totemiche, si libererà in lavori di grande formato, come nell’incredibile The bettlefield, un acrilico su tela (quasi 35 metri quadrati) esposto nelle sale del Museo. Ma anche la scultura, che all’inizio partiva dall’utilizzo di materiali di uso quotidiano come scatole di cartone, bottiglie usate, carta stagnola, legno, si concretizza in un lavoro monumentale come il bronzo intitolato Ich Selbstbewusstsein (Io Autocoscienza), esposta nel chiostro.
Chi è allora questo artista, appassionato jazzista, molto interessato al ritmo, come dice lui stesso? Un mix di cose diverse. È dominato dall’astrattismo dei simboli, dal gusto per la caricatura, soggiogato da uno stile automatico, illusionista, ma anche portato all’occultamento, alla destrutturazione, come se certi suoi tratti neri celassero informazioni essenziali, sgradite al regime. Penck, però, sembra obiettivo nel suo giudizio. Negli ultimi anni, definirà l’Oriente un deserto e l’Occidente una giungla. La sua opera è forse lì a dimostrare il conflitto fra questi due mondi.

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