Ambra Castagnetti, .exe, 2025. 3D digital video, 7'20''. Dimensioni variabili. Still da video
Quale sarà il tuo ultimo pensiero prima di morire? È solo una delle tante domande che ci conducono nel viaggio di exe. primo film in digitale realizzato dall’artista Ambra Castagnetti (Genova, 1993), che torna dopo due anni negli spazi della galleria milanese Francesca Minini con la mostra Supernature. Un ritorno che raccoglie, attraverso video, scultura e ologramma, le riflessioni emerse a seguito di un periodo di profonda crisi diventata punto di partenza per una ricerca del sé che si fa ampia e universale, corpo politico in un mondo schiacciato dalle nevrosi contemporanee. Veganesimo, buddismo, meditazione, nascita, morte, suicidio: l’avatar esplora le contraddizioni dell’odierno generando mondi alieni, attraversando architetture brutaliste immerse in un immaginario cyberpunk e in un tempo che si ripete ciclico. Di questa nuova fase creativa e molto altro ce ne ha parlato l’artista in questo dialogo.
Partiamo da Supernature, che segna il tuo ritorno negli spazi della Galleria di Francesca Minnini, una mostra un cui il tema dell’identità emerge con forza. Nello specifico, da quale domanda nasce?
«Questa mostra è il risultato di questi ultimi due anni di ricerca: tra il 2021 e il 2023 ho dovuto affrontare un periodo di intenso lavoro in cui sentivo di essere sempre esterna a me stessa. Le realtà che raccontavo partivano dall’esterno, facevo calchi delle persone attorno a me creando degli autoritratti attraverso gli altri. Al termine di questa fase ho avvertito la necessità di riconcentrarmi su di me attraverso la terapia, le letture, gli studi. Questa mostra rappresenta quindi una sorta di viaggio interiore, ma allo stesso tempo una battaglia che combattiamo».
Ci racconti di più?
«Nel film, questo avatar si pone tanti quesiti, a partire da: quale sarà il mio primo pensiero quando nasco? Cos’è la coscienza? La mia coscienza inizia nel momento in cui io vengo alla luce o è qualcosa che non finisce mai? In quali modi posso ritrovare me stessa? Posso ritrovarmi attraverso gli altri? Si tratta di quesiti filosofici e religiosi di permanenza del sé in questo mondo. Le domande si amplificano nel momento in cui l’avatar protagonista guarda le due sculture (che sono realmente in mostra) e rappresentano questo confronto».
In che modo il concetto di relazione entra in questa riflessione?
«Finché guardo un altro volto non devo guardarmi io allo specchio. È una cosa che può accadere all’interno delle relazioni sentimentali, che diventano talmente potenti, talmente fusionali per cui non si capiscono più i confini tra te stesso e l’altro. Voglio stare con te o voglio essere te? Un andamento simbiotico in cui amare l’altro ed essere l’altro rischiano di sovrapporsi. Si tratta di relazioni estremamente pericolose che si agganciano su ferite molto profonde del nostro inconscio, e quindi ciò che all’inizio era bellissimo può diventare una catastrofe».
Come finisce questo viaggio?
«La protagonista si chiede come poter annientare il proprio sé e mette in campo una serie di elementi che rispecchiano la società odierna, tra veganesimo, meditazione, buddismo, anche il cristianesimo, in un certo senso. Si parla di mortificazione del corpo, di dissociazione – la malattia della nostra fetta di mondo, dissociarsi e scrollare sui social – fino all’abuso di sostanze. Nella ricerca del superamento dell’ego questo personaggio si lancia dal grattacielo. Il suicidio è un tema ricorrente nel mio lavoro, anche nella performance: uno strumento per superare le spoglie mortali e la coscienza individuale e riunirsi a una cocienza collettiva, quindi a qualcosa di più grande».
Mi sembra che la crisi sia la radice comune di tutto il lavoro, vissuta però come un inizio per la risalita e per nuove traiettorie.
«Sì, il video stesso è un loop che parte con la domanda: “ti sei mai chiesto quale sarebbe stato il tuo primo pensiero appena nato?” e termina con “quale sarebbe il tuo ultimo pensiero prima di morire?”. Nel film il personaggio non sa se sopravvivrà, ma quando il film finisce nel buio ricomincia dal buio. C’è anche il tema karmico della reincarnazione, ciclico appunto».
Su un piano formale questo video attinge da immaginari a te cari, l’ambito tecnologico, quello cyberpunk… ce ne puoi parlare?
«Da un punto di vista formale mi sono divertita tantissimo: per la prima volta, modellando gli elementi in 3D non avevo limiti. Quindi grattacieli, cattedrali, deserti, strutture gigantesche… la scalabilità è un tema per me importante che approfondirò nel prossimo film».
Ci puoi spiegare cosa intendi e anticipare qualcosa?
«Sarà una componente importante: la differenza piccolo e grande, il personaggio a confronto con i monumenti. Tutti gli scenari che io raffiguro sono paesaggi dell’anima, c’è tantissimo riferimento al brutalismo come tipo di architettura, così respingente, spoglia, massiccia, che allo stesso tempo ha una sorta di slancio verso qualcosa di divino, una visione totemica delle forme geometriche. Tornando al film in mostra, ci sono citazioni da architetture di Tadao Ando, ma anche riferimenti cinematografici a sci-fi come Blade Runner, Mad Max, Everything Everywhere All at Once. Le tante porte che la protagonista apre in questa cattedrale rappresentano le infinite possibilità, le dimensioni alternative, gli universi paralleli – un riferimento alla “teoria delle stringhe” –. In questo modo la dimensione sci-fi assume un portato spirituale».
Sperimentare per la prima volta con il video ha in qualche modo influito sulla percezione che hai delle tue opere?
«In realtà avrei da sempre voluto fare cinema, ancora prima dell’arte. Quello che mi interessa è creare mondi: sento tutte le mie opere sono in realtà una grande scenografia per un grande film, che sarà completo magari il giorno in cui morirò. Non percepisco mai un lavoro come concluso, ma sempre ongoing. Ho già girato dei corti che però non ho mai esposto. Realizzare film è difficile, devi avere enormi finanziamenti. Però ora, attraverso il videogame, posso davvero dare forma a tutto quello che voglio raccontare. D’altronde sono linguaggi che si auto alimentano: più faccio scultura, più mi viene da fare performance, più disegno più mi viene da fare video».
Una delle cose che mi ha fatto avvicinare maggiormente al tuo lavoro, è questo tuo modo di performare nell’opera ma anche nella vita reale presentando un aspetto “alieno” che quasi trascende l’umano: la ricerca dell’alterità consiste anche nel dar forma a mondi che ancora non esistono?
«Sì, l’utilizzo del corpo come strumento nel mondo per me è importantissimo. Nella vita di tutti i giorni mi sono sentita sempre un po’ un’aliena e non provenendo da una grande città inizialmente è stato motivo di frustrazione. Poi ho cominciato a percepirlo come qualcosa che mi dava forza, non c’è nulla di cui vergognarsi nell’essere diversi. È un’identità da vivere fino in fondo, senza rischiare di tradire se stessi per mettere a proprio agio gli altri. A tutti noi vengono messi dei paletti in quanto esseri umani, in quanto persone AFAB (Assigned Female At Birth, ndr), in quanto persone che lavorano nel mondo dell’arte. Eppure, voglio cercare di spingere la propria identità verso terreni inesplorati, una necessità trasformativa di ricerca continua».
Ti riconosci in una generazione di artisti o in una comunità che frequenti attivamente?
«Sì, a Milano abbiamo creato una community nel mio studio che si chiama Lǝ Lichenǝ. Per un periodo eravamo in dieci, eravamo molto attive e organizzavamo open studio e performance. Ma siamo soprattutto molto amici e amiche, siamo tutte persone queer e non binarie e condividiamo diversi livelli di pensiero, di ideali, oltre a questa filosofia delle reti fungine, da cui proviene il nome».
Quali sono le vostre ispirazioni?
«Coltiviamo questa idea di contaminare i luoghi con la nostra estetica che va dal boschivo, naturale e fungino al cyberpunk ipertecnologico e alieno. Quindi anche il nostro aspetto, i nostri segni particolari sono simili. Oltre a questo ci aiutiamo nella vita di ogni giorno, è una sorta di famiglia scelta, mentre le scelte stilistiche e artistiche interagiscono. L’arte è la nostra vita, è il modo in cui ci esprimiamo e tutto confluisce all’interno dell’opera».
A proposito di tematiche queer e studi di genere, assistiamo in questi anni a un clima politico mutato in modo repentino, in cui lo spazio per tali tematiche si è ristretto ulteriormente. È una situazione che ha avuto un impatto sul tuo lavoro, in termini di sostegno e sensibilità?
«Sono d’accordo con quello che dici. Quando nel 2022 ho partecipato alla Biennale, The Milk of Dreams, il mio lavoro ha avuto grande slancio perché rispecchiava un momento di grandissimo fermento su queste tematiche. Leggevo Paul Preciado che preconizzava una sorta di “rivolta dei corpi non conformi” che sarebbe avvenuta post Covid. Pareva fossimo sulla soglia di una rivoluzione culturale e io ci credevo tantissimo. Poi mi è capitato di essere invitata da istituzioni che mi chiamavano perché il mio nome era in quel periodo sulla cresta dell’onda, senza che le tematiche che affrontavo fossero però accolte pienamente. L’Italia ha grandi problemi sulle tematiche di genere, che l’attuale clima politico ha contribuito ad acuire. Sento che il futuro dell’arte in questo momento non è qui, ma in luoghi “minori”, più decentrati, però in grado di affrontare questioni importanti da cui dipende anche il nostro futuro».
Che progetti hai per il futuro prossimo?
«Sono stata invitata da Eugenio Viola a realizzare una mostra personale al Museo di Arte Contemporanea di Bogotà, dove trascorrerò due mesi».
Cosa ti aspetti da questa esperienza?
«Sentivo il bisogno di andarmene per un po’ dall’Italia. Sono anche pronta a un bagno di umiltà, in quanto bianca che va in Colombia. Prenderemo uno studio, lavorerò su tre piani di mostra, partendo dal piano superiore e andando verso il basso: la percepirò come una discesa nell’inconscio e mi piacerebbe partire da istanze pratiche, vita reale, rituale, per arrivare a un’esperienza trascendentale, sempre cercando di passare dalle cose della vita quotidiana, dal rituale cerimoniale per poi tendere a questa sorta di trascendenza».
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