DIPTYCH EXTENSION_3 , 2025 Resina e pigmenti su plexiglas e base fotografica 90x120 cm
Abbiamo intervistato l’artista italiana Claudia Peill per approfondire insieme a lei le nuove fasi della sua ricerca, in parte svelate in occasione della mostra bipersonale Limitless, insieme alla finlandese Kaisu Koivisto, che si è tenuta dal 25 ottobre al 23 novembre presso lo spazio indipendente Plan_D a Düsseldorf.
Partiamo dalla mostra Limitless a Düsseldorf con Kaisu Koivisto. Come è nata l’idea di questa mostra e cosa ha rappresentato per te?
«Limitless è stata, in primis, l’occasione per riprendere una collaborazione di lunga data con Kaisu Koivisto, artista finlandese con la quale a partire dalla fine degli anni ’90, abbiamo condiviso molte esperienze e contenuti, seppur lavorando con linguaggi e forme espressive chiaramente differenti. Questa mostra è stata per entrambe un’ulteriore occasione di lavoro comune: la possibilità di esporre insieme a Düsseldorf presso Plan_D, spazio indipendente ma molto attivo e frequentato in Germania».
Come si allinea e si concretizza il tuo lavoro con quello di Kaisu Koivisto?
«Kaisu va a fotografare le Svalbard e i ghiacciai non da scienziata o documentarista e neanche da esteta. Nel rappresentare quei paesaggi di un’estrema bellezza, attraverso l’utilizzo di sovraesposizioni e sovrapposizioni, rivela sempre degli elementi discordanti che necessitano di un’attenta visione. La bellezza appare così profanata da azioni antropiche invasive, come la sporcizia o la grande presenza di turisti.
Ciò che si vede non è mai quello che è; questa ingannevolezza della visione ci ha accomunato in Limitless, come in occasioni passate, ad esempio per la mostra Intersections presso il Museo Andersen di Roma. Anche se il suo lavoro è più sociale abbiamo comunque molte affinità a livello concettuale».
In realtà in questa mostra tu hai portato il frutto di una nuova ricerca, giusto?
«Ho colto l’occasione di questa doppia personale per verificare il nuovo lavoro a cui mi sto dedicando già da due anni. Alcune opere risalgono già al 2024 ma non le avevo mai esposte, anche perché ero consapevole della diversità e del taglio che rappresentano rispetto alla produzione precedente.
Proprio per questo motivo ho ritenuto opportuno aspettare un’occasione specifica per presentare il corpo del nuovo tema e questa mostra ben l’ha rappresentata.
Con la Koivisto ci siamo, infatti, ritrovate in modo parallelo a lavorare su una tematica comune, quella dell’acqua che abbiamo deciso di declinare ponendo la nostra attenzione ai processi di trasformazione che portano a superare limiti umani e naturali».
Vedendo le tue ultime opere che hai chiamato Extension in realtà si può dire che sono rivolte a un altro elemento che non è l’elemento acquatico ma è l’elemento dell’aria. Perché la definisci una nuova fase della tua ricerca? Che cosa ha di diverso rispetto al passato?
«Apparentemente il lavoro attuale sembra in antitesi con quello passato, ma in realtà è consequenziale ad esso. La mia ricerca da sempre si è sviluppata catturando immagini realistiche attraverso la fotografia, con il fine però di trasporle in un contesto completamente diverso. Usare la fotografia non è per me un paradosso ma è proprio la cifra della mia ricerca.
Attraverso il mezzo tecnico-linguistico che per eccellenza pare essere il più idoneo a testimoniare la realtà, io prendo, estrapolo, o ne sorprendo un pezzo, per poi contraddirlo.
Una parte di realtà resta, ma la combinazione con la pittura permette di creare un’altra atmosfera, un’altra dimensione. Compiendo una trasfigurazione di contesto, sottraggo alla fotografia il ruolo magistrale di registrazione della realtà per giungere ad una nuova dimensione, dove esiste la sospensione del tempo. D’altronde, come dice Roland Barthes, in fotografia il tempo è stato, dopo lo scatto ormai l’attimo è già passato.
Nel mio caso il tempo non esiste, non è né passato né presente, ma è una sospensione spaziale e temporale. È per questo motivo che parlo di estensione spazio temporale.
In quest’ottica la pittura si combina con la fotografia proprio per accentuare un senso di astrazione. Dove astrazione non indica assenza di figurazione ma è da intendersi nell’accezione di abrstràhere, andare oltre, lontano dal qui e ora.
Nel corso degli anni sono arrivata a sfidare il mondo ordinario, a prendere in prestito proprio gli elementi della quotidianità: street art, persone, mondo del lavoro fino ad arrivare all’archeologia e all’architettura moderna, contemporanea o post industriale. In un’ultima fase il mio lavoro si è rivolto verso il basso, verso i chiusini, proprio per cercare di riportare valore anche al minimo dettaglio della vita quotidiana, anche quello più nascosto e modesto, per rendergli dignità e nuovo significato.
Però forse, complice anche il periodo storico in cui viviamo, la continua tensione verso la materialità ha iniziato a darmi un senso di ansia e costrizione. Ho avvertito la necessità interiore di rivolgere lo sguardo verso l’alto e allontanarmi da questo presente.
In questo cambiamento di sguardo non ho voluto trasgredire o negare il mio processo creativo. Resta sempre il desiderio di catturare parti di ciò che vivo e vedo (vogliamo dire del reale?) per trasformarlo e trasportarlo verso un altro orizzonte di senso. Quindi se da una parte il meccanismo è lo stesso, forse è cambiato il soggetto.
Il nuovo soggetto, le nuvole, non essendo tangibili diventano qualcosa di più lontano, ma anche più sensibile, più mentale, quindi forse più metafisico».
Le nuvole dunque sono il nuovo soggetto a cui tu hai rivolto la tua attenzione. Mi confermi, quindi, la necessità di alzare lo sguardo per uscire dalla dinamica delle cose legate alla fisicità della vita umana, per andare verso qualcosa di evanescente e impalpabile. In che modo ti sei approcciata a questo soggetto molto presente nella storia dell’arte e come sei giunta a trasformarlo in maniera così evidente?
«In realtà all’inizio mi sono spaventata! Ho cercato anche di cacciarla via questa idea!
Come spesso mi succede quando arrivano delle idee nuove, fastidiose, più pungenti, provo a scacciarle, ma se queste tornano e ritornano, non posso più ignorarle. Nel caso recente delle nuvole ho cercato tutte le motivazioni per escludere questa ricerca, ma in realtà esse venivano tutte contraddette, perché c’era sempre qualcosa in più. E anche confrontandomi con artisti a me contemporanei che si occupano di nuvole, scoprivo ogni volta che avevo qualcosa di diverso da dire.
Quindi il vero spunto, il vero nutrimento la vera fonte da esplorare era alle origini. Ho deciso di andare a Londra per studiare dal vero i due grandi maestri dell’aria e della luce: Constable e Turner (sui quali proprio a Londra in questo periodo è in corso una grande mostra).
Avvicinarmi alle loro opere dal vivo ha rafforzato le mie convinzioni nel constatare quella forza di pensiero che sembra presupporre un desiderio di astrazione anche nella loro ricerca, per quanto Constable e Turner non siano pittori astratti.
Osservare le nuvole non rappresenta per me un discorso estetico di soggetto e di disegno dal vero, ma è il senso di afferrare e accogliere con forza e sicurezza questa necessità di andare verso l’intangibile. Anche se in precedenza ho trattato soggetti concreti come i tombini, il Sony Center, il lingotto di Torino, in fondo ho sempre avuto un grande desiderio di raccontare qualcosa di poco definibile, che questa volta si è ancor più estremizzato, forse a causa dell’insicurezza dettata dall’attuale periodo storico.
Il cielo fa parte della nostra vita, sta sopra di noi in una dimensione che viviamo. Non è dunque l’infinito, però rappresenta il tramite attraverso il quale possiamo accedere al concetto di infinito. È l’unica entità in cui non ci sono limiti».
Hai appunto parlato di sollevare lo sguardo, come se fosse un movimento di verticalità, invece guardando Extension vediamo delle opere basate su una forte orizzontalità. Da che cosa deriva questa orizzontalità? Queste tue opere appaiono come infiniti orizzonti, non rimandano minimamente a quella morbidezza e rotondità che noi associamo alla figura della nuvola. Come hai operato per ottenere questa immagine, che poi credo dia anche il nome al ciclo di opere?
«Dal punto di vista tecnico ho realizzato queste immagini oserei dire tirandole. Poiché non hanno una forma precisa potrebbero sembrare immagini virtuali, realizzate con la tavola grafica o con l’uso di AI, ma non lo sono, pur essendo il frutto di un’elaborazione digitale, di fatto nascono da un regolare scatto di un elemento reale. Si potrebbero realizzare anche con la tecnica tradizionale, senza software e programmi attuali, attraverso un metodo meccanico, come una lunga esposizione o un lento movimento, ma la tecnologia se ci aiuta perché rifiutarla.
Dal punto di vista più forte e sostanziale del contenuto posso dire che questa ricerca sull’orizzontalità, a cui mi hai fatto pensare proprio tu quando ne abbiamo parlato la prima volta, mi appartiene da sempre. Se ricordi nella mia prima mostra personale a Roma nel ’93 (ero molto giovane!), in una galleria di rilievo (ndr. Studio Stefania Miscetti), avevo realizzato una linea lungo tutta la galleria, appunto un orizzonte. Questa ricerca della linearità conferma, oggi con più consapevolezza di allora, la necessità di andare oltre il limite, perché proprio l’orizzonte mi fa pensare alla linea, alle linee e alla doppia orizzontalità delle mie ultime opere, parallele che non si incontrano mai se non all’infinito. E quindi questo paradosso ti offre la possibilità di uscire fuori dai tuoi limiti corporei anche sensoriali e cioè di andare oltre il contingente».
Sia a livello formale che tecnico sono tanti anni, forse da sempre, che sviluppi le tue opere in forma di dittico. C’è una parte che proviene da una fotografia elaborata e c’è una parte invece che è pura pittura. Anche in questo caso tu hai seguito questa logica. Per quale motivo usi il dittico?
«La combinazione del dittico è mentale, perché talvolta uso anche trittici od opere con più moduli. È da considerarsi come duplicità del dialogo tra fotografia e pittura, in cui la fotografia esprime una parte iconica, mentre la parte pittorica rimane più silenziosa. Apparentemente è quasi monocroma ma in realtà è composta da tanti strati e tante superfici che non potranno mai renderla tale.
Sia con la pittura direttamente sulla tela sia con le resine, è netta la separazione delle due parti, che però si uniscono concettualmente: alla parte monocroma, quella pittorica, spetta il ruolo di rafforzare l’elemento figurativo contenuto nell’altra. In quest’ultimo abbiamo subito una percezione istintiva, mentre nella parte silenziosa siamo portati alla riflessione sull’essenza e sulla veridicità di quello che stiamo vedendo.
È la parte silenziosa, spesso definita muta, che dà valore e significato nascosto all’opera, permettendo quell’operazione di svelamento che attraverso il velare, rivela. Essa rappresenta una pausa, durante la quale io posso riflettere e collegare le due parti.
Oppure, più semplicemente potremmo pensare che la zona del colore, coprendo una parte dell’immagine, operi una cesura o un nascondimento a chi guarda, che, solleticato dall’idea di scoprire cosa ci sia sotto, tenta la decifrazione dell’opera.
Dunque la parte celata è effettivamente la chiave di quello che io credo di percepire e quindi dell’opera».
Il mezzo pittorico lo usi esclusivamente nella zona del colore o eventualmente intervieni con la pittura anche sull’immagine che proviene dalla fotografia?
«In passato intervenivo con la pittura anche sulle immagini fotografiche, quando lavoravo con l’analogico le stampe erano tutte in b/n e venivano da me velate con una prima stesura con colori specifici trasparenti ad acqua. Inoltre la resina seppur trasparente viene comunque stesa a pennello e quindi si creano volutamente diversi strati, che devono essere superati per percepire l’immagine. Per intendere il suo significato dobbiamo superare dei filtri: i filtri della nostra memoria, della nostra cultura o delle nostre paure».
Hai ripreso questa lavorazione delle resine in Extension?
«Ho iniziato ad usare le resine nel ’96 con questa volontà di svelamento delle immagini. Poi le ho interrotte per circa dieci anni utilizzando lo stesso processo di abbinamento fotografia e pittura ma direttamente su tela con colori acrilici. Per questo ciclo di opere sono tornata ad utilizzarle, proprio perché, nel creare un’ulteriore superficie artificiale, ho percepito come la resina fosse più funzionale e aderente al progetto».
Mi sembra come se la resina fosse più funzionale alla volontà di rendere in maniera effettiva un concetto di aria, considerando che ci rivolgiamo ad un soggetto come le nuvole.
«La resina accentua il senso dell’impalpabile e dell’inafferrabile, la declinazione di ciò che in realtà non è stabile ma cangiante, con la possibilità di rendere esplicito il non detto.
Oggi di non detti ce ne sono molti, narrazioni errate e fasulle, forse per questo motivo ho sentito la necessità di rafforzare il senso del dubbio o dell’impotenza nel conoscere la verità.
Le nuvole sono il soggetto più appropriato, esse cambiano continuamente, sono cangianti e inafferrabili. Turner e Constable registravano questa mutevolezza, anche nei loro disegni. Constable in particolare disegnava le nuvole con tratti di grafite dinamici e vibranti, riuscendo ad esprimere i grandi turbamenti della pittura romantica. I grandi maestri non esauriscono mai di stupirci».
Potremmo dire che utilizzare l’elemento pittorico anche sulla parte fotografica renda l’opera più unita, in maniera intima, non tanto a livello tecnico quanto a livello mentale?
«Si perfettamente, l’elemento colore sull’immagine fotografica c’è, ha molto valore perché accentua questo senso di alterazione e di enigmaticità. Anche nell’analogico quando lo stendevo a mano questo colore aveva la sua forza unificante, perché esso è sempre in relazione con il dittico monocromo accanto».
In Extension hai avviato in maniera parallela una produzione di altro tipo rispetto ai quadri? Hai avuto modo di sperimentare anche altri supporti o altre tecniche magari su carta o altro?
«Io disegno sempre, in parallelo ai quadri, porto avanti anche dei lavori su carta, sempre con lo stesso metodo del dittico, abbinamenti che diventano collages su carta.
In questa situazione specifica dopo molti lavori con la grafite, a tampone, ho sperimentato una tecnica antica, l’incisione detta alla maniera nera, ma che chiamerei dura, perché su lastre grandi come quelle che ho utilizzato di 35×30 cm di zinco o rame, serve una grande forza e una grande sfida con la materia. Attraverso questa tecnica, sono riuscita ad ottenere la parte silenziosa del dittico, quella monocroma, attraverso una moltitudine di segni incisi, creando una trama scura, quasi nera, che però non è piatta e sorda ma sensibile dove cioè i segni restituiscono una superficie viva».
Non è solo una produzione di studio, ma un lavoro che ha una sua ragion d’essere?
«Si certo, ho realizzato delle edizioni di pochi esemplari, proprio perché questa matrice alla maniera nera non permette di stampare troppe copie. Alcune stampe, oltre alle opere su resina, erano appunto esposte a Düsseldorf, dove per dar conto dell’intero processo, ho presentato anche disegni a grafite e multipli su plexiglass, un’altra esplorazione espressiva dello stesso tema.
L’idea del multiplo è nata perché consente di esprimere una dualità: da una parte rende le opere più fruibili, dall’altra permette di sottolinearne l’inaccessibilità.
Nel caso dei multipli il dittico è volutamente sintetizzato in un unico corpo. Si tratta di stampe fotografiche montate su alluminio e plexiglass di diverse dimensioni, dove la parte pittorica non è sempre restituita da un colore digitale, ma è una riproduzione fotografica. Ho scelto il plexiglass perché è molto rispondente alla resina, almeno nelle parti più lucide.
Nelle opere su resina c’è un dialogo tra lucido e opaco: le parti della trasparenza sono lucide, quelle delle zone pittoriche meno e hanno tonalità cangianti ottenuti dalle terre, che rendono il colore metallico grazie agli elementi minerali che contengono».
Un’ultima domanda: tu hai detto che questa orizzontalità ti ha riportato alle prime opere della tua carriera artistica. Sono andata a vedere i cataloghi delle tue mostre, come quella allestita nel ’93 da Stefania Miscetti, o quella di Waves che hai allestito anche a Londra nel 2003. Lì c’era una linea orizzontale che correva lunghissima e che prendeva fisicamente uno spazio. Oggi l’orizzontalità è racchiusa all’interno di un’opera. Che cosa è cambiato rispetto al passato nell’interpretazione, nella visione, nella considerazione di questa linea orizzontale e che a questo punto si ricollega al nome della mostra di Düsseldorf che è Limitless?
«Durante gli anni che passano la ricerca si sintetizza e si toglie tanta roba. Waves era un’opera grande di 18 metri che per apprezzarla tutta dovevi proprio camminare lungo la sua estensione.
Quindi lì c’era un importante senso del movimento con una forte similitudine alla cinematografia, anche nel rapporto tra ogni pezzo (50×60 cm ciascuno) come i frames della pellicola. Nella lettura dell’opera, nella successione dei moduli si creava un movimento seppur i moduli fossero statici.
La ricerca ovviamente va avanti. Il movimento e l’orizzontalità di oggi possono essere concentrati in un’unica opera singola, e riconosco che questa da sola possa restituire quello che precedentemente ho espresso attraverso una lunga narrazione di 18 metri con circa 30 frames».
Una nuova visione che in qualche modo sintetizza e quindi concettualizza?
«In Extension questa orizzontalità la senti in ogni singola opera, mentre nelle opere di Waves l’orizzontalità era affermata dalla presenza fisica di tutti questi moduli. Oggi il lavoro è diverso e dopo un percorso di maturazione basta un’opera perché lo spettatore possa immergersi dentro l’orizzontalità e perdersi in questo orizzonte senza limite».
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