Between my flesh and world’s fingers – Richter Fine Arts

di - 20 Gennaio 2022
Spesso mi chiedo in quale frammento di spazio e in quale scheggia di tempo si situi oggi la galleria di Tommaso Richter. E, soprattutto, in quale punto preciso il visitatore è costretto a inscrivere il proprio sguardo all’interno del meccanismo di una galleria che – nell’esigenza di provare a restituire una complessità oggi troppo spesso accantonata, in quanto istanza marginale non adatta al mercato –, ad ogni nuova mostra, da un lato si riorganizza secondo una forza centrifuga che decentra gli sguardi e gli strati di pensiero delineati nelle mostre precedenti e, dall’altro, ricuce questo vortice sotterraneo attraverso una forza centripeta che prova a creare una nuova densità intorno a cui affollare ulteriori geometrie di pensiero.
Richter Fine Art, Between my flesh and the world’s fingers, installation view, photo credits Giorgio Benni
Questa volta Richter presenta “Between my flesh and world’s fingers” una collettiva di cinque artisti: Grgur Akrap, Loren Erdrich, Katarina Janeckova, Jay Miriam e Marlon Wobst. Cinque artisti molto diversi tra loro, ma accomunati da un medesimo sentire: che la pittura si intreccia con il tessuto del mondo, dalla cui “carne” essa esplode, proprio come vi si intreccia il corpo vivente e percipiente dell’artista. Cinque artisti la cui pittura nasce in-between, “tra” essi e il mondo, in quello spazio interstiziale carnale che, invece di dividere, congiunge senziente e sentito. Le loro opere, perciò, mostrano il mondo, non duplicandolo, ma esibendone l’unità e la forza, rinviando a quel “calore” che costantemente le permea modellandole.
In questa mostra, infatti, ogni singola opera ci riporta la traccia di un’infiammazione; ogni opera è l’immagine di una bruciatura e di un continuare a bruciare che irradia il vuoto in cui si inserisce la pittura. È come se nelle loro opere questi artisti – ognuno a suo modo – abbiano voluto captare e tradurre in immagini quelle parole sorde, quelle voci, quegli accenti, quella lingua intramata di sottintesi, di interpunzioni, di cesure, ma soprattutto di silenzio, che il mondo mormora, che il pensiero comune preferisce ignorare, e che essi, invece, ascoltano. E nel restituire, mediante i segni tracciati dalla mano, il modo in cui il loro occhio è stato “toccato” dal mondo, essi donano esistenza visibile a ciò che la visione profana crede invisibile e spesso invivibile. Qualità, luci, ombre, colori, superfici, profondità, sono davanti a noi, nelle opere esposte, soltanto perché hanno risvegliato in questi artisti un’eco nel loro corpo, soltanto perché essi li hanno accolti, selezionati e messi insieme sulla base di una formula nascosta, bilanciando sapientemente controllo e assenza di controllo, intenzionalità e casualità, calcolo e imprevisto.
Richter Fine Art, Between my flesh and the world’s fingers, installation view, photo credits Giorgio Benni
Insomma, sono artisti che tentano di bypassare il linguaggio ordinario affidandosi a quello della pittura. E, anche laddove catturano momenti di vita quotidiana, cercano di sospendere quel patto di coesistenza che ci siamo illusi di aver concluso con il mondo. Non si limitano mai a enunciare ciò che già conosciamo, ma al contrario ci introducono a esperienze e prospettive nuove, facendoci sbarazzare dei nostri pregiudizi. Prospettive, però, che saranno nostre solo a condizione che i nostri occhi si lascino sorprendere da queste configurazioni di spazio e di colore e si lascino catapultare in un viaggio imprevisto attraverso sensazioni, pulsioni e desideri sepolti, alla ricerca di concrete emozioni.
E nel momento in cui siamo “raggiunti” dall’opera, senza nessun altro intermediario, senza nessun’altra guida se non un certo tracciato del pennello, reincrociamo misteriosamente il senso del gesto che l’ha creata. Ed ecco che, tutt’a un tratto, i dati attuali significano ben oltre ciò che manifestano. Le forme che prima ci apparivano chiare e definite, ci giungono sfocate, porose e, allo stesso tempo, scintillanti; “sanguinano”, come se spargessero sotto i nostri occhi la loro sostanza. Possiamo decidere di fissare un fuoco, di rassicurarci in un’immagine riconciliata e riconoscibile. Oppure rischiare di lasciar fare al nostro desiderio, lasciandogli impostare un autofocus che selezioni l’immagine secondo le sue regole e le sue leggi. Ma tutto ciò – è bene che lo sappiamo – può diventare un gioco pericoloso.

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