Daniel Gonzalez, Hot Stuff, 2025, mylar tagliato al laser, cucito a mano su tela, 200x150cm. Courtesy Lungarno Collection
«Quante volte ci dimentichiamo di ringraziare qualcuno? Di dirgli che gli vogliamo bene, che ci siamo per questa persona? Tutti i giorni abbiamo qualcosa per cui ringraziare e dovremmo davvero farlo. È un fatto di energia». Sono queste le parole di Daniel Gonzalez (Buenos Aires, 1963), le cui opere hanno invaso la lobby del Gallery Hotel Art a Firenze, del gruppo Lungarno Collection. La mostra, dal titolo The Invented Reality curata da Valentina Ciarallo, si riferisce a una “realtà inventata” che parte però dai più piccoli gesti, un’utopia di rivoluzione del quotidiano di cui la celebrazione della leggerezza è il piatto principale.
I love you, Thank you, It’s OK, Open Mind, Hot Stuff e Nice: sono alcuni dei “comandamenti” che si possono leggere sui cosiddetti “text paintings” dell’artista argentino: sentenze brevi, comuni e ricorrenti che considerate però come attivatori relazionali tra l’opera, lo spazio espositivo e il pubblico. «Mi sarei potuto limitare a dipingere queste frasi su tela», racconta, «ma in questo modo non avrebbero mai potuto superare il proprio confine, cercando una connessione al di là del muro». Chi conosce Daniel Gonzalez, infatti, sa che la propria pratica è inestricabile da un materiale affatto comune nell’arte contemporanea: il mylar. Sinonimo per eccellenza della festa, elemento ricorrente nella memoria collettiva, il mylar anima da sempre le sue opere, rendendosi riconoscibile e spiccando a metri di distanza nelle fiere affollate, cambiando immediatamente l’energia della stanza in cui viene esposto, adattandosi a innumerevoli circostanze, mettendosi in dialogo con l’architettura e facendosi opera pubblica e cinetica come nel caso di Golden Gate, recentemente inaugurata al Cimitero Monumentale di Bergamo.
Le opere in mylar, come curiosi tappeti plastici affissi al muro, riflettono la luce con le sue molteplici direzioni e attivano nella mente del visitatore un immediato senso di gioia e gioco. Se l’immaginario a cui rimandano è la festa e il clamore, però, la lunga ritualità in cui consiste la loro produzione è un lavoro scandito da silenzio e profonda concentrazione. Nel suo studio tra i colli del Valpolicella, infatti, Daniel Gonzalez comincia lavorando su metri e metri di questo materiale, dapprima tagliandolo accuratamente per ricavarne i segmenti della lunghezza desiderata, e poi cucendoli, assieme, frammento per frammento. «Ogni pezzo viene saldato alla tela con tre cuciture», ci racconta l’artista, la cui carriera è partita come fashion designer collaborando, una volta giunto in Italia negli anni Ottanta, con marchi del calibro di Benetton. La cucitura costituisce l’ossatura delle sue opere, grazie alla quale è possibile direzionare il materiale, creare scritte non geometriche e sovrapporre numerosi strati irregolari.
All’imponenza dei text paintings, che contengono chili di materiale assemblato in un unico lavoro, si contrappone la leggerezza di opere di piccolo formato, chiamati Silence: si tratta di “soffi” monocromi accompagnati da tele nude sulle quali vengono ricamate frasi, questa volta prive di mylar. We are legends everyday, leggiamo su una di queste; Joy is power, leggiamo su un’altra; e, ancora, Turn the magic on. Il tripudio della festa si incarna anche in materiali quali perline e pailettes, che tempestano le piccole sculture poste sul tavolo della library del Gallery Hotel Art. La scatola del Valium, quella delle vitamine Alive!, quella del whisky Chivas Regal diventano dispositivi distopici e festosi provenienti dai meandri della memoria dell’artista.
Dietro tutto questo frenetico celebrare, si cela un pensiero sociale e politico decisamente meno effimero. «Tutto il mio lavoro è in dialogo con il senso della festa», spiega Gonzalez. Ma cosa succede solitamente alle feste? «Calano le inibizioni, facciamo entrare in noi stessi leggerezza e libertà. All’interno della festa non ci sono gerarchie sociali, tutti i tabù cadono». E conclude con una domanda provocatoria: «Ci pensi a cosa succederebbe se potessimo applicare questo tipo di libertà nella vita di tutti i giorni?».
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