Luciano Massari a Sarzana ph. Milene Mucci
È stata appena inaugurata nel centro storico di Sarzana, e sarà visitabile fino alla fine di ottobre, La soglia del silenzio mostra personale di Luciano Massari (Carrara, 1956). Una esposizione curata da Alberto Mattia Martini e promossa dal Comune di Sarzana che, con un percorso espositivo diffuso, inserisce le sculture monumentali in marmo di Massari in un dialogo poetico fra passato e contemporaneità, complice lo straordinario patrimonio medievale e rinascimentale del luogo. Luciano Massari, scultore di fama internazionale ed ex direttore delle Accademie di Belle Arti di Torino e Carrara, è ad oggi una delle voci più autorevoli della scultura contemporanea italiana.
A Sarzana arriva con quattro grandi sculture strettamente inserite nel contesto urbano: «Figure antropomorfe caratterizzate da linearità e pulizia formale che risultano immediatamente riconoscibili e instaurano un ‘punto di passaggio’ tra il presente e il passato» come sottolinea il curatore della mostra Alberto Mattia Martini.
Incontro Luciano Massari per un dialogo all’ombra estiva di una di queste sue figure slanciate verso il cielo nella bella piazza del Duomo di Sarzana.
Due parole per il titolo di questa mostra: «soglia» e «silenzio». Qual è stata la tua poetica per la scelta di queste due parole così dense?
La scelta di queste due parole nasce da una riflessione profonda sul ruolo dell’arte nel nostro tempo perché in queste due parole sento racchiuso il cuore del mio lavoro. La «Soglia» richiama la citazione di Gaston Bachelard: «La soglia è un luogo. È dove le cose accadono». La vitalità del luogo insita in questa affermazione, cioè un passaggio dove le cose accadono e si trasformano, rappresenta l’idea di uno spazio intermedio che amo pensare come uno spazio che non separa, ma al contrario connette presente e passato, visibile e invisibile, materia e memoria. Le mie sculture sono queste soglie tra dimensioni temporali diverse, punti in cui il tempo si piega e la percezione si apre. «Silenzio», invece, è la mia dichiarazione poetica e politica: in un’epoca di urgenza visiva e di frenesia comunicativa, sommersi di immagini e rumore, io scelgo la discrezione; queste opere segnano la via della discrezione e della presenza non invadente. È un silenzio pieno, denso e operante, che chiede allo spettatore di fermarsi e di attivare un gesto antico e rivoluzionario: riflettere e ascoltare con tutto il corpo, non solo con le orecchie, aprire uno spazio interiore e riappropriarsi della pratica contemplativa come atto di ribellione.
Come è nata l’idea di queste presenze così vicine a noi ma anche così apparentemente proiettate «verso l’alto» e verso «altro» da noi?
Queste «presenze verticali di marmo» nascono dalla volontà di creare forme che sfidano la percezione convenzionale della gravità e del peso. L’idea è nata visitando la città e i luoghi che attualmente le accolgono; il mio pensiero si è indirizzato naturalmente verso queste presenze verticali di marmo, sorretto dal desiderio di dare forma a qualcosa che sfidasse la percezione abituale di un’opera in un tessuto urbano così radicato nella storia e nel vissuto quotidiano.
Volevo che avessero una presenza importante nelle dimensioni eppure risultassero leggere, come se la materia stessa avesse imparato a respirare. Un paradosso che nasce dall’esperienza di trattare il marmo, così denso e così antico, con un tocco che lo rendesse quasi spirituale, ed è stato un dialogo continuo tra le mie mani e la memoria millenaria della pietra, in un equilibrio instabile tra il pieno e il vuoto, tra la gravità della materia e la leggerezza dell’aria.
La loro proiezione «verso l’alto» e, allo stesso tempo, «verso altro» è un’apertura a ciò che non si lascia definire; queste figure non raccontano, ma, abitando quella sospensione fragile tra il pieno e il vuoto, indicano il confine tra ciò che possiamo toccare e ciò che possiamo solo intuire.
Opere che vivono in questo momento l’ambivalenza del silenzio notturno di strade dal sapore antico in cui si stagliano nette, ma anche la vivace animazione di un centro abitato in piena stagione turistica, circondate di gente, turisti, bambini che ci giocano intorno o si siedono sui loro piedistalli. Mi viene da immaginare un approccio che evoca sensazioni, riguardo alla loro presenza, completamente diverse.
Questa doppia vita delle mie opere rappresenta esattamente la natura dialogica e performativa che definirei post-monumentale, immerse nel silenzio notturno delle strade antiche e poi travolte, di giorno fino a tarda sera, dalla vivace animazione dei residenti e dei turisti. Sono nate per essere interlocutrici silenziose, capaci di dialogare tanto con le pietre e l’asfalto quanto con i corpi che le sfiorano, le attraversano, le abitano. Non si ergono sopra la città ma vivono dentro di essa, come presenze che la completano senza volerla possedere; le immagino come spazi di sospensione, luoghi che non danno spiegazioni ma tempi, che non offrono letture ma esperienze.
Quando vedo i bambini giocare attorno alle sculture o sedersi sui piedistalli, so che si stanno realizzando le finalità delle opere nello spazio pubblico nell’accezione più autentica, diventando luoghi da abitare, presenze condivise in cui la volontà dominante cede il passo all’ospitalità.
Questa ambivalenza di quiete, solitudine e condivisione è la linfa della mia ricerca; tento di generare una sorta di ecologia estetica, dove l’arte non domina lo spazio ma lo apre, lo rende «terreno comune».
Come vivi tutto questo?
Lo vivo come si vive in una conversazione senza fine; arrivo a pensare che le mie opere di notte respirano con me il silenzio, di giorno invece mi sorprendono perché diventano altro da ciò che avevo immaginato. È un po’ come veder crescere un figlio: lo metti al mondo ma poi lui ti insegna a capire chi è davvero. Nel caso di queste installazioni a Sarzana questa alternanza di quiete, di caos, di ascolto e di contatto fisico con chi vive il luogo, mi ricorda che l’arte non può essere un monologo ma una trama fatta di presenze, gesti, sguardi. Non mi sento mai, per così dire, padrone di queste forme, anche se le accompagno, le curo, ma poi con un po’ di coraggio le lascio andare, affinché trovino il loro posto nella vita degli altri.
È qualcosa che fa parte di un’emozione prevista e desiderata come autore?
Come autore è un’emozione che avevo sperato… ma non del tutto. Dalle loro prime apparizioni nei miei pensieri speravo che una volta installate avessero questa capacità di vivere e farsi vivere in modi diversi, che avessero la capacità di generare incontri intorno a loro mutando con la luce e con le varie presenze umane. Ma la verità è che la realtà ha superato il progetto: puoi immaginare il silenzio, ma non il passo preciso che lo attraverserà; puoi desiderare la partecipazione, ma non il sorriso di un bambino che si arrampica sul piedistallo come fosse casa sua.
Quindi sì, è un’emozione cercata ma anche continuamente rinnovata, perché ogni volta che vedo accadere questa trasformazione mi sorprendo come se fosse la prima. Allora capisco che il mio lavoro non è soltanto dare forma alla materia, ma aprire uno spazio dove accadano cose che non posso controllare, e proprio in questo sta la sua bellezza.
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