Archivio. Tentativo di capire come si costruisce un nido, di Mariana Ferratto
Ancora pochi giorni per visitare “Dimore”: la collettiva inaugurata a Roma in zona Ostiense lo scorso 10 maggio e accessibile liberamente fino al 16 giugno. Riuniti sotto la chiave di ricerca del “dimorare” e presentati a The Gallery Apart, sono i lavori delle artiste Mariana Ferratto, Rowena Harris e Luana Perilli.
La mostra “Dimore” è lo snodo saliente di una narrazione artistica, che seppur differente per modalità e forme di trasmissione, ha al centro il “mondo corporale” declinato nelle tematiche della pandemia, delle migrazioni e dei cambiamenti climatici. Ciascuna definibile come mondo a sé, queste tematiche così lontane ma anche strettamente collegate e correlate, riescono a declinare infinite sfaccettature di stare al mondo. Tante nature, poiché molte sono le visioni della natura. Narrarle vuol dire parlare dell’uomo e tentare di raccontarle. È dopotutto sempre dell’uomo che si discute, dagli strumenti che egli utilizza per rendere la natura comprensibile e delle immagini a cui ricorre per illustrarne i meccanismi. La natura, al singolare, diviene così lo specchio, la superficie, la casa, dove l’uomo riflette la propria immagine.
Le tre protagoniste della mostra scelgono di trattare la dimensione del dimorare da angolazioni diverse, non ricercandone i risvolti intimi e domestici, al contrario evidenziandone il rapporto tra il sé e l’ambiente che ci circonda e ci contiene in un’ottica di urgenza mondiale.
Dimora è l’habitat con cui entriamo in contatto e con le cui necessità dobbiamo fare i conti. Dimora è la dimensione affettiva e spirituale di quello spazio fisico e mentale dove ci troviamo ad accogliere l’altro. Dimorare significa abitare più o meno stabilmente in un luogo. Dimorare è la scelta di uno spazio, in cui accogliere e incontrare, dove poter trovare nutrimento e ospitalità. Il dimorare è un indugiare. C’è geneticamente un tergiversare nel dimorare, un tardare, un temporeggiare. L’abitare è un trattenersi. Abitare la propria pelle significa parlare del corpo umano come meccanismo apparentemente chiuso e perfetto che ci fornisce un senso di totale affidabilità e protezione, pur essendo invece, a diverse scale, poroso per definizione.
Ispirandosi alla poesia The Treehouse di James A. Emanuel, Luana Perilli individua nella casa sull’albero un rifugio fisico e mentale, un ritorno alle gestazioni e trasformazioni infantili e adolescenziali, un tempo di attesa. Più rivolta alla coltivazione e protezione dei sentimenti è l’interpretazione dell’abitare offerta da Mariana Ferratto. L’artista sembra fornire una mappa dei luoghi in cui alberga la spiritualità, siano essi dei piccoli nidi minuziosamente disegnati o una madre enorme che diventa casa per i suoi cuccioli. Nel video Madame Maison la dimensione installativa è funzionale alla fruizione del messaggio: una donna gigantesca che interagisce con bambini dalle dimensioni di adulti. L’imponente figura, e signora della casa, è abbigliata da antica dama ed offre l’apertura centrale della sua gonna alla disponibilità di due bambini che la abitano giocando e simulando atti come cucinare, mangiare, dormire, pulire. Nella scelta dei giochi – tutte proiezioni di attività tipicamente domestiche – i bambini eleggono la loro madre a luogo di abitazione. Archivio. Tentativo di capire come si costruisce un nido è il titolo dei disegni che l’artista ha raggruppato su grandi fogli. Si tratta di disegni minuziosi, che riproducono foglie, piccoli rami e fango con cui ciascuna specie volatile ha costruito il proprio rifugio. Un lavoro lento e dettagliato che l’artista definisce come una sorta di mantra, a sottolinearne la dimensione di accoglienza e rifugio per i propri sentimenti. Infine l’interpretazione dell’abitare di Rowena Harris: un corpo abitato e che abita, un corpo situato e interattivo con l’ambiente materiale, sociale e politico. Il film Molecular Multiplicities è un’ispezione dell’umano come costruzione visiva, sociale e scientifica. L’immagine è associata ad una scansione 3D realistica di un uomo bianco di mezza età, o meglio una “non identità”, che descrive e interroga la logica del confronto tra il sé e l’altro propria del sistema immunitario umano. Se il video provoca un’immagine problematizzata del corpo come contenitore protettivo da agenti esterni, l’installazione Waves and Waves spinge lo spettatore all’interazione con l’opera. La visione è condizionata dal flusso dell’aria e dal movimento di altri corpi, mentre le due immagini stampate su seta danzano delicatamente, dialogando sulla loro relazione invisibile nello spazio e nella vita.
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