Inarrestabile Gian Maria Tosatti, in dialogo -lo scorso 27 novembre- con Denis Viva alla Casa Museo Palazzo Maffei di Verona. «Ti avevo avvisato che sono logorroico», ha ironizzato l’artista rivolto al suo interlocutore, critico e docente all’Università di Trento, che nel frattempo rinunciava a porre confini.
In realtà, il flusso di coscienza di Tosatti sconfinava per l’urgenza dei contenuti. «Io e mia moglie [la critica Lucrezia Longobardi, ndr] fatichiamo a ritrovarci in questo mondo», insostenibile, deviato da pochi egemoni, i “nazisti” odierni, responsabili di devastazioni e conflitti e dello svilimento dell’esistenza, «mentre noi tutti facciamo l’abitudine al nostro condannarci».
Introducendo la lectio -in cui l’artista ha analizzato il presente più che ripercorrere la sua carriera-, Denis Viva ha accennato alla cultura letteraria che ne pervade le installazioni ambientali, costruite come viaggi per tappe. In Devozioni (2008-2012), ad esempio, si leggono sotto traccia i Vangeli, ma anche i Fratelli Karamazov di Dostoevskij; invece nelle Sette Stagioni dello Spirito (2013-2016) si ritrovano i limiti estremi dell’animo umano tra bene e male, gli stessi descritti da Dante o da Santa Teresa D’Avila nelle sette stanze de Il castello interiore (1577).
Dopo aver percorso infinite città invisibili, Tosatti ha marcato il suo spartiacque nel 2005, in risposta al bisogno di esperire sensualmente la realtà. «È stato come dare il primo bacio da adolescente: anche se hai letto Le notti bianche di Dostoevskij ti accorgi che è un’altra cosa».
Sempre da un libro scaturisce la riflessione sul disagio di vivere in un orizzonte che abdica alle domande radicali. Le pagine sono stavolta quelle de “Il monte analogo” di Renè Dumal, i cui personaggi compiono la stessa Ascesa al monte Ventoso di Petrarca, ovvero una scalata metaforica verso la liberazione dello spirito. «Il timore più grande che confessa uno dei protagonisti -riporta Tosatti- è quello di morire senza sapere perché si è vissuti». In fondo, l’arte non è che l’antidoto a questa passività, dal periodo classico in poi. «Nel solco di due Michelangelo -rivela l’artista-, quali Anselm Kiefer e Romeo Castellucci, cerco di essere un tragediografo greco che fa “sentire” un’immagine in alta definizione del presente e poi ti chiede: Come stai?». Solo dal ritrovato malessere proviene infatti il dubbio sul possibile cambiamento. «L’obiettivo è provare a capire dove dovremmo essere, ripercorrendo le ceneri della storia fino alle origini del trauma», chiosa Tosatti, citando Agamben.
Il suo appello a non rassegnarci a sparire è credibile, poiché negli ultimi vent’anni l’artista romano ha inseguito le macerie come Francis Alÿs i suoi tornado, da New York fino a Odessa, in Ucraina. La sua immersione nella catastrofe crea un transfer che spinge il pubblico a esperire la banalità del male e a espiarlo catarticamente. «Se volete vedere il futuro, andate in Sud Africa -ammonisce- Io ci sono stato tre mesi [nel 2019 da vincitore del Premio Cape Town e artista in residenza alla A4 Arts Foundation, ndr] Ogni giorno andando al lavoro vedi morire i mendicanti a terra, come stracci, nell’indifferenza totale». Questo senso di vergogna intrisa d’inattività è il cancro della civiltà contemporanea, che né il mito greco, né gli archetipi cristiani possono più risanare; forse taumaturgica è solo l’arte militante, che risveglia dalla follia dell’olocausto contemporaneo dovuto all’inquinamento.
Un’arte incisiva va però di pari passo con una critica schierata -pressoché assente nell’ultimo quarto di secolo-, che possa filtrare ciò che ha valore e andrà custodito da un collezionismo colto, in luoghi come Palazzo Maffei. Mappare l’arte presente è l’imperativo categorico del Tosatti Direttore Artistico della Quadriennale di Roma (per il triennio 2021-2024), coadiuvato da 25 curatori: chi non prende posizione è esonerato. “Mi si contesta di scrivere e fare l’artista: io ricordo gli esempi di Leonardo, Testori e Pasolini”.
Nel frattempo Napoli, la città “greca” dove ha scelto di vivere, si prepara a ufficializzare l’installazione permanente di un artista tragico. Il prossimo 2 dicembre, al Museo e Real Bosco di Capodimonte sarà presentata Damasa (2017), nome che Gian Maria darebbe a una figlia, e oggi ha il volto di una stagione che abbraccia barcollante il suo futuro.
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