William Kentridge More Sweetly Play the Dance, 2015
William Kentridge (Johannesburg, 1955), al MUDAM di Lussemburgo, racconta la sua arte lunga quattro decadi. Lo fa attraverso ogni medium possibile, analizzando, scandagliando, decostruendo le assurdità di un mondo tutto mosso da ostentate certezze. Incontriamo disegni e collage durante il percorso della mostra, sculture di varie forme e dimensioni, e poi ancora film, suoni, installazioni video che rievocano tradizioni e sentimenti nuovi, familiari, lontani.
«The wise heart that would forget». «The foolish heart that would love».
«It reminds me of something I can’t remember».
«It is not enough».
Prima traccia della ricerca di Kentridge, al Mudam, è la sagoma di un grande albero nel salone d’ingresso (Shadow, 2021), con quei rami neri, fitti e intrecciati che puntano sicuri ai vetri dell’architetto Ieoh Ming Pei. Quattro megafoni imponenti, agli estremi della Great Hall, riempiono la sala come vere e proprie sculture (Almost Don’t Tremble, 2019) e raccontano a gran voce la Resistenza contro l’Apartheid grazie alla collaborazione con un gruppo di compositori sudafricani.
«Something has been postponed».
«Your days will became years».
«Why should I hesitate?».
Primo piano, East Gallery, un susseguirsi di opere apparentemente distanti che affondano le proprie radici nella pratica del disegno. Troviamo grandi statue di moke, megafoni, macchine da scrivere e telefoni in fila, come teatranti della Commedia d’arte italiana; poco più in là, un grande naso in cartapesta (Prop for The Nose, 2016) ispirato all’opera satirica di Dmitri Shostakovich; sulle mensole, in processione, le piccole sculture in bronzo che compongono Rebus, quasi lettere sul rigo di un quaderno in attesa di formare una parola. Che cosa raccontano, quei simboli senza contesto? Che cosa vogliono svelare? Sono «come geroglifici», per usare le parole dell’artista, «in cui viene esteso allo spettatore un invito a dare un senso al nonsense».
Senso, non senso, fascinazione del linguaggio, imprevedibilità. Ed eccoci davanti a uno dei soggetti più cari alla poetica di Kentridge, la proverbiale Sibilla. La troviamo nel film proiettato in loop nella sala (Sibyl, 2020); in Untitled, Leaning on Air (2020), il grande albero che si snoda tra frasi e parole misteriose; e ancora in quegli slogan che sfilano, apparentemente sconnessi, lungo le pareti della sala: «Starve the algorithm», sembra sentirli urlare, «God’s opinion is unknown». Come la Sibilla antica, la sacerdotessa contemporanea può predire il futuro attraverso un linguaggio che ha il suono della più labile vox media. Ma che cosa accade se il responso tanto agognato arriva da un meccanico, in-umanissimo algorithm?
«You will be alone on the plane».
«All so different from what you expected».
«Where shall we put our hope?».
Ultima tappa: una carovana di scheletri, prigionieri, sciamani, figure eterogenee che siamo invitati a seguire – ma solo da spettatori; una processione che è danza e rito, tutto insieme, scandita dalla musica di una banda che resta nelle orecchie ben oltre il tempo della sua fruizione; un ammasso ordinato di corpi che scorrono a gruppi lungo otto pannelli, in loop, come un ciclo senza spiegazioni. Vita e morte si incontrano inesorabilmente nel corteo di Kentridge e si dirigono spedite nella stessa direzione, da sinistra verso destra, brandendo ora bandiere, ora trombe e tamburi, ora gabbie e sagome di fiori. Nella mente, una domanda che risuona più forte della musica: dove andranno a finire?
«More sweetly play the dance».
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