Biennale di Venezia 2026, le ultime novità in tre padiglioni da tenere d’occhio

di - 14 Novembre 2025

Si fa sempre più dettagliato il panorama artistico della prossima Biennale di Venezia, che seguirà il progetto curatoriale della compianta Koyo Kouoh e la cui apertura al pubblico è prevista per il 9 maggio 2026. In Minor Keys — questo il titolo della 61ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Contemporanea — si prefigura come una esposizione variegata, in cui si fa sempre più attenzione alla pluralità dei soggetti partecipanti.

Ciò trova riscontro anche nelle scelte progettuali di tre padiglioni nazionali: il Lussemburgo presenterà un progetto di Aline Bouvy, l’Arabia Saudita verrà rappresentata da Dana Awartani, mentre lo Zimbabwe vedrà protagonisti cinque artisti: Gideon Gomo, Eva Raath, Franklyn Dzingai, Felix Shumba e Pardon Mapondera.

Padiglione Lussemburgo: Aline Bouvy

Il Lussemburgo ha scelto l’artista Aline Bouvy, classe 1974, per rappresentare il proprio Padiglione. Attiva tra Bruxelles e Lussemburgo, Bouvy ha costruito negli anni una pratica eclettica e stratificata che attraversa scultura, installazione, suono e performance, con una costante attenzione per il corpo e per le forme di percezione sensoriale e sociale.

Nei suoi lavori, spesso caratterizzati da un’estetica volutamente ambigua e disturbante, l’artista indaga le tensioni tra desiderio e controllo, tra la dimensione animale e quella umana, tra la vulnerabilità e la costruzione dei corpi nello spazio pubblico. Il suo linguaggio, ironico e sensuale, mette in discussione le norme morali e i dispositivi di disciplina imposti dal contesto contemporaneo.

Con il progetto ideato per Venezia, curato da Stilbé Schroeder, Bouvy sembra voler espandere questa indagine in chiave spaziale e collettiva, trasformando il padiglione in un ambiente immersivo dove la scultura si fonde con il suono e la materia diventa veicolo di esperienza emotiva. Come anticipato dalla curatrice Schroeder, il padiglione esplorerà «le soglie tra il visibile e l’invisibile, tra il corpo individuale e quello sociale, in un gioco di tensioni che è al tempo stesso fisico e politico».

Aline Bouvy and Stilbé Schroeder. © Ernest Thiesmeier, 2025.

Padiglione Arabia Saudita: Dana Awartani

Il Padiglione dell’Arabia Saudita alla Biennale Arte 2026 sarà affidato alla giovane artista saudita-palestinese Dana Awartani (nata a Jeddah nel 1987), con la curatela di Antonia Carver e Hafsa Alkhudairi. Awartani è nota per un lavoro che intreccia artigianato islamico, geometria sacra e memoria del patrimonio culturale, come nel recente progetto Standing by the Ruins (2024-25), una ricostruzione simbolica di un hammam distrutto a Gaza.

Dopo la partecipazione alla Biennale Arte 2024, curata da Adriano Pedrosa, dove ha presentato l’installazione Come, let me heal your wounds. Let me mend your broken bones (2024), l’artista torna a Venezia con un nuovo progetto per il Padiglione saudita. L’opera esposta nella mostra principale di Pedrosa si configurava come un requiem per i siti storici e culturali distrutti nel mondo arabo durante guerre e atti di terrorismo.

Come racconta la stessa artista, la sua pratica «Si fonda sulla valorizzazione delle storie culturali del Medio Oriente attraverso la rinascita delle pratiche artigianali e la conservazione del patrimonio materiale della regione, di rilevanza globale».

Inserendosi nel tema generale della Biennale, In Minor Keys, il Padiglione saudita offrirà una riflessione sull’eredità culturale, sull’interruzione e sulla ricomposizione, trasformandosi in uno spazio di interrogazione del concetto stesso di nazionalità.

Dana Awartani, Antonia Carver, and Hafsa Alkhudairi, 2025. Courtesy of the Visual Arts Commission.

Padiglione Zimbabwe: Felix Shumba

Infine, lo Zimbabwe, che partecipa alla Biennale dalla 54ma edizione, nel 2011, ha annunciato titolo e protagonisti del padiglione della Biennale Artr 2026: Second Nature | Manyonga, curato da Fadzai Veronica Muchemwa, con gli artisti Felix Shumba, Pardon Mapondera, Eva Raath, Gideon Gomo e Franklyn Dzingai.

Felix Shumba, in particolare, lavora con installazioni multimediali che reinterpretano archivi coloniali e post-coloniali, esplorando la traccia psicologica e ambientale di violenza e mutazione nel paesaggio zimbabwiano. La sua pratica, che abbraccia disegno, pittura, video, testo e installazione, indaga i temi della maschera, della dissimulazione e della decostruzione degli spazi, reali e immaginari. Le aree rappresentate nei suoi lavori, che l’artista definisce Fold Fields Spaces (FFS), sono territori sospesi, attraversati da morte, trauma, danni ecologici e dalla presenza costante della forza militare come strumento di controllo.

Franklyn Dzingai opera principalmente nell’ambito della stampa, adottando il metodo della riduzione su cartone per creare vivaci composizioni che riflettono sulle dinamiche della memoria e dell’interazione sociale. Attraendo da archivi personali – fotografie familiari, materiali stampati, documenti privati – l’artista indaga il modo in cui il ricordo individuale contribuisca alla costruzione dell’identità collettiva. L’uso calibrato del colore e delle ripetizioni rivela il suo interesse per la stratificazione delle narrazioni personali e culturali.

Felix Shumba, The night waits for eight hour, 2024. Charcoal on paper, 72 x 70 cm

Gideon Gomo realizza assemblaggi che combinano la tradizione della scultura in pietra zimbabwese con materiali come metallo, rame e oggetti trovati. Le sue opere riflettono su ritualità, trasformazione e continuità della memoria culturale, in un dialogo aperto tra eredità e modernità.

Pardon Mapondera impiega materiali riciclati – bottiglie di plastica, cannucce, fili – per dare forma a intricate composizioni tessili che interrogano ecologia, sopravvivenza e rigenerazione. La sua pratica mette in evidenza le implicazioni ambientali e sociali del rifiuto, trasformando scarti quotidiani in articolate dichiarazioni visive.

Eva Raath, artista e incisora, esplora identità e trasformazione attraverso grandi stampe tessili. Utilizzando materiali di recupero e risorse locali, reinterpreta gli universi domestici e decorativi come spazi di meditazione. Le sue opere trovano un equilibrio tra rigore formale e sostenibilità, trasformando materiali ordinari in luoghi densi di significato culturale e personale.

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