Leonor Fini - Parigi anni ‘50 - coll. privata, Trieste - © Marianna Accerboni
Una mostra fuori dagli schemi consueti ha aperto ieri all’Istituto di Cultura Italiano di Parigi, e indaga i giovanili anni triestini dell’eclettica Leonor Fini (1907-1996), pittrice e disegnatrice, ma anche costumista, sceneggiatrice e scrittrice. Una personalità eccentrica, anticonformista, trasgressiva e nomade, al centro della scena culturale prima a Trieste e Milano, poi a Parigi, Roma, infine di nuovo Parigi. Con una lunga ricerca la curatrice e ideatrice della rassegna Marianna Accerboni ha raccolto testimonianze inedite e rare: disegni, dipinti, incisioni e acquerelli provenienti quasi esclusivamente da collezioni private triestine, di amici e parenti che avevano con lei un rapporto personale e che avevano commissionato o acquistato opere dell’artista; non mancano libri, porcellane da lei decorate, documenti, lettere, abiti e filmati. Leonor Fini, nata a Buenos Aires, in Argentina, era approdata nella città giuliana piccolissima con la madre Malvina Braun, in fuga da un marito dispotico.
Immersa nell’ambiente artistico e intellettuale della città Leonor conosce Umberto Saba, Italo Svevo (di cui eseguirà un ritratto), il pittore Arturo Nathan e il critico d’arte Gillo Dorfles (come testimoniano le lettere in mostra – corredate da un’interessante analisi grafologica – e tre dipinti messi in dialogo, rispettivamente di Nathan, Dorfles e di Fini). Trieste, cui l’artista restò sempre legatissima, era però solo un trampolino di lancio. A 23 anni infatti si trasferisce prima a Milano e poi Parigi, centro pulsante di tutte le avanguardie artistiche del momento, entrando in contatto con i surrealisti. La capitale francese era il posto giusto per la sua personalità indipendente ed esuberante, un vero e proprio booster per la creatività di colei che si meritò l’appellativo di Italienne de Paris. Leonor Fini vi resta fino alla morte, pur trascorrendo lunghi periodi altrove, come a Roma. L’esposizione è un’occasione per avvicinarsi ai temi cari all’artista, in particolare le sue iconiche figure femminili e gli amati gatti, uno dei leit motiv preferiti cui aveva dedicato anche il testo narrativo Murmur, fiaba per bambini pelosi, apparso in francese nel 1976 e tradotto in italiano nel 2014, corredato da immagini pittoriche e ricco di riferimenti autobiografici.
L’esposizione tocca anche aspetti insoliti della sua produzione, come le porcellane e ceramiche prodotte nel 1951 dalla Società Ceramica Italiana – S.C.I. di Laveno-Mombello (le forme del vasellame si devono invece all’estro dell’architetto e designer triestino Guido Andloviz, direttore di produzione della S.C.I dal 1927 al 1950). A corredo una serie di cappelli, abiti da sera e voluttuose cappe appartenute a Leonor, che ben ne delineano il personaggio e con le quali facilmente si riesce a immaginarla. I video a corredo della rassegna sono un altro punto forte da non perdere, con interviste a parenti ed amici (tra cui Gillo Dorfles e Daisy Nathan, sorella di Arturo, scomparsi rispettivamente nel 2018 e nel 2011) e con il filmato in cui l’artista, ormai ottantasettenne, parla di sé e della sua arte, con voce profonda e senza esitazioni. A sottolineare l’aspetto intimista anche due profumi: Lolò, come veniva chiamata Leonor Fini da familiari ed amici, un’essenza sensuale e speziata, femminile; Kot, invece, gatto in polacco, è un bouquet più fresco, con accordi di sandalo e patchouli, delicatamente maschile. Leonor chiamava così il suo amico, l’intellettuale polacco Constantin Jelenski, con il quale, insieme al diplomatico e pittore Stanislao Lepri, condivise fino alla morte, in virtuoso triangolo amoroso, la sua abitazione parigina.
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