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TEATRO

di - 25 Giugno 2018
Vedere il “Gran Teatro del mondo” messo in scena da Fondazione Lenz a Parma, a Palazzo della Pilotta, ha una allure quasi mistica, oltre all’attualità dello spettacolo.
Adattando il testo di Pedro Calderón de La Barca, scritto negli anni ’30 del 1600 con il titolo originale “El gran teatro del mundo”, Francesco Pititto con gli attori di Lenz (Fondazione che si occupa da anni anche di teatro sociale, ovvero in percorsi laboratoriali che portano in scena “disabili intellettivi, fisici, sensoriali, ex lungo-degenti psichici, soggetti normalmente esclusi dai processi artistici”) sembra dare un ulteriore vigore alle parole, anche laddove chi recita usa una voce flebile.
Ma il gran teatro del mondo è lo spettacolo della vita, con il Dio-Autore che assegna le parti con arbitrio ma anche con la precisa richiesta di recitare bene il ruolo che viene posto ai presenti, in attesa del giudizio finale e della “restituzione” di quello che dal mondo si è preso. E appreso.
E così sfilano il Re, che guarda il suo sterminato regno dove il sole non tramonta, la Prudenza che timida, religiosa e casta viene derisa dalla Bellezza, che una volta morta si accorge di aver perso tutti i suoi colori. E poi c’è il Ricco, che ovviamente non condivide la propria fortuna con nessuno e rientra nella categoria degli avari, il Contadino nella sua condizione disperata di lavoratore della terra affaticato che grida “torno a casa alla sera e picchio mia moglie e i miei figli”, il Povero che mendica e si rammarica di essere nato e che, nemmeno a dirlo, viene sdegnato da tutte le altre categorie e infine un Bambino, che non ha avuto tempo di recitare la propria parte, passato dal ventre materno al sepolcro.
“Tutta la vita è una commedia, e quand’è finita, starà seduto al mio fianco chi avrà fatto la sua parte senza lamenti e senza errori”, recita il piccolo Matteo Castellazzi, nella parte dell’Autore-Dio.
Lenz Fondazione, Il Grande Teatro del Mondo – foto di Francesco Pititto
È uno spettacolo a tratti commovente e a tratti divertente nei suoi paradossi e nella replica di schemi millenari, nell’ironia delle sorti, nella roulette dei ruoli: “Perché devo fare io la parte del povero in questa commedia? Per me deve essere una tragedia e per gli altri no?” esce dalla parte di Paolo Maccini, il Povero.
E ancora più forte diventa il gioco delle parti in questo teatro del mondo dove non solo recitano tutti, ma che è stato concepito in una “scenografia” da far tremare i polsi: lo scalone centrale, il vestibolo, la galleria nazionale e il teatro Farnese di Parma, nel Complesso Monumentale della Pilotta. Risuonano i clavicembali nelle sale, e i busti in marmo, la quadreria con i mille ritratti di Maria Luisa d’Austria, la “Buona Duchessa” per i parmensi, i cavalli e i fregi del Farnese sono allo stesso tempo presenze che testimoniano l’irreversibilità dell’esistenza e cristallizzano la sua fine in una memoria, oscuri testimoni oculari al di sopra di chi sta, ancora, inscenando la propria parte.
Ed è davvero da brividi poter entrare in questi spazi fuori dagli orari di apertura, intravedere pitture “bruciate” dai fari che illuminano le postazioni degli attori e scoprire ombre fortissime, guardando personaggi così convincenti che sembrano essersi materializzati fuori da questi olii su tela dopo quasi 400 anni.
E poi c’è il fatto che “Il teatro contemporaneo sente maturare in un processo naturale la necessità di fondersi con l’essere sociale in condizione di fragilità, vulnerabilità, debolezza, sofferenza, alla ricerca di una nuova resurrezione artistica. Nella poetica di Lenz la forma degli esiti spettacolari è l’intreccio profondo tra la radice, il nucleo originario del testo e il suo svelamento attraverso la parola e il gesto dell’attore”, è uno degli statement di lavoro della Fondazione.
E nella diversità, senza molta retorica e senza buonismi, si nasconde un altro modo di vedere il teatro. E  l’arte.
Matteo Bergamini

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