Categorie: arteatro

Teatro/Il gusto del rischio

di - 19 Giugno 2012

Nel gioco delle forme e nel loro rapporto con la mutazione – il riferimento è chiaramente a Georg Simmel – i festival estivi del nostro teatro hanno una funzione precisa, che in qualche modo può essere identificata con la loro stessa ragion d’essere. Tale funzione, coincidente col significante, è racchiusa nella possibilità offerta alla rappresentazione di autopensarsi con quegli elementi di rinnovamento che ne costituiscono la base per un’originalità che si innalza oltre la prima creazione, dando vita a un’ulteriore opera d’arte. Insomma, lo spettacolo si plasma in una forma nuova, che è la forma stessa degli spazi che diventano simbolici, poiché sono i luoghi di un teatro che non è più quello delle stagioni invernali, nel momento stesso in cui vengono abitati da un pubblico diverso, così come diverse sono le motivazioni della sua presenza in platea. Tutto questo per dire, in sostanza, che assistere a uno spettacolo inserito dentro a un festival consente l’approdo a dimensioni tutte particolari, e la rappresentazione in sé dunque è qualcosa d’altro, osando per sua stessa natura. Accolto come nuovo, lo spettacolo assume allora il gusto del rischio, e il gesto dell’osare, creando così forme originali, è certo un buon motivo (rivoluzionario, si sarebbe detto un tempo) affinché i festival dell’estate continuino a esistere e a godere di buona salute.

Tra i primi a partire c’è il Festival delle Colline Torinesi, diretto da Sergio Ariotti con Isabella Lagattolla. Qui, nei giorni scorsi, è andata in scena la prima nazionale di This is the end, una produzione del francese CNAC (Centre National des Arts du Cirque), racchiusa nel Progetto C3+, vale a dire la collaborazione tra tre festival storici di Torino: oltre alle Colline, il Teatro a Corte e il festival Sul Filo del Circo. La forma del nouveau cirque, con la regia di David Bobee, è il racconto di una generazione, quella dei giovani, dove le immagini – tra tensione rabbiosa o scoppi di brevi momenti felicità – diventano una possibile estetica della bellezza contemporanea, dicendo molto più di tante parole, che per una volta sono da considerarsi, spinozianamente, modi della sostanza. Una drammaturgia costruita sui corpi di interpreti che sfidano nell’aria il possibile e il certo, capace di legare diversi stili espressivi e di comunicare una serie di condizioni dello stare al mondo, tra disagio e sogni, esistenze frammentate che si cercano respingendosi, perché c’è sempre un nuovo orizzonte a cui poter guardare, oltre la legge di gravità.

Passando dallo chapiteau del circo sul Ponte Mosca alla storica Cavallerizza Reale, ci si imbatte in un intelligente autore-attore che rinnova la recente, ma consolidata, tradizione del teatro di narrazione. Sì, perché il siciliano Tindaro Granata con Antropolaroid sposta più in là la consueta frontiera del racconto, cominciando con una sola sedia destinata a occupare lo spazio scenico – e questo, per la verità, l’avevamo già visto – ma poi si avventura in un territorio che non è peregrino definire quasi “cinematografico”. Nel senso che si ispira alla tecnica del “cunto” della sua terra, facendo del corpo dell’interprete un arsenale delle apparizioni. Il sostrato del racconto è la storia della famiglia di Tindaro, con un omaggio dichiarato ai nonni, ma senza ricami o piaggerie nel ricordare come sono andate effettivamente le cose, e le vicende vengono narrate chiamando sulla scena tutti i personaggi coinvolti nei fatti, figure a cui l’attore dà corpo moltiplicandosi in un affascinante gioco delle parti, che sembrano convivere addirittura simultaneamente. Lo stesso lavoro Granata lo fa nella narrazione delle storie, che vengono legate – o divise, a seconda dei casi – con sorprendenti dissolvenze nell’atteggiamento e nella voce. Tecniche che gli consentono di procedere in avanti col racconto o di tornare indietro con alcuni funzionali flashback. Il resto lo fa la magica convenzione del teatro, dove, per esempio, basta tirarsi una maglia sulla testa e incurvarsi un po’ per trasformarsi in un attimo in una vecchina col fazzoletto in testa. Curioso, molto bravo Tindaro Granata: soprattutto originale.

E il festival prosegue con un appuntamento che vede protagonisti un’attrice e un gruppo di culto della ricerca italiana capace di farsi punto di riferimento internazionale, insieme a un’icona del teatro mondiale. Oggi alle Fonderie Limone di Moncalieri va in scena infatti The plot is the revolution, uno spettacolo di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, con la strepitosa Silvia Calderoni (questi sono i Motus) e Judith Malina (questa è l’icona, classe 1926, fondatrice con Julian Beck del Living Theatre). La serata interrogherà sui sensi, molteplici, dell’utopia e il titolo è un omaggio a una delle più grandi utopie del teatro di tutti i tempi: quel Paradise now del Living che nel 1968 richiamò decine di migliaia di spettatori, ai quali venne consegnata una mappa con disegnato il diagramma del viaggio di ascensione verso la “rivoluzione permanente”. Proprio alla base del diagramma si poteva appunto leggere che “the plot is the revolution”, cioè che la trama è la rivoluzione. Il resto sono le parole di Judith Malina: «Ho incontrato Silvia Calderoni, viaggiato insieme attraverso la storia, il teatro, il pensiero politico, due donne, due attrici, separate dalle generazioni, destinate a dialogare col pubblico, a condividere la nostra ricerca di una bella, non violenta, anarchica rivoluzione». Un concetto sul quale il Living Theatre ha fondato la sua esistenza e tutto il suo percorso, attraverso “i” teatri.

Una segnalazione, infine, per uno spettacolo che fa di una casa privata un’istallazione. Si tratta di Roberta torna a casa di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti. Va in scena nella loro abitazione di Vercelli, in via Ariosto 85, e sarà nel cartellone delle Colline fino a giovedì, per entrare poi nella programmazione del festival “Da vicino nessuno è normale”, organizzato a Milano da Olinda (dal 28 giugno al 21 luglio). Dopo vent’anni in Australia, e in tournée in ventisei Paesi del mondo, Roberta Bosetti è ritornata nella casa della sua infanzia, per raccontare un’emozionante storia privata, per far diventare pubblico lo spazio del privato, e prima di tutto dell’anima. Aggiungendo segni, sera dopo sera, su un muro. Finché quel muro non sarà riempito e, forse, la missione sarà compiuta, chiudendo il cerchio del rapporto genitori-figli. 

Programma completo e informazioni su www.festivaldellecolline.it.

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