Categorie: Arti performative

Teatro fisico, danza contemporanea e performance site specific: intervista a Gioele Coccia

di - 9 Agosto 2025

È un artista poliedrico del movimento, impegnato nella creazione, interpretazione e regia di progetti che spaziano tra danza contemporanea, teatro fisico e sperimentazione audiovisiva. Danzatore, performer, coreografo, docente e autore, dedica la sua ricerca all’esplorazione delle espressioni umane attraverso linguaggi ibridi e transdisciplinari. Si è formato in Italia e all’estero, collaborando con compagnie e artisti di rilievo. In Italia ha preso parte a numerosi progetti, tra cui una lunga collaborazione con la compagnia Ritmi Sotterranei. Da anni vive tra Roma e Praga, dove è performer e formatore stabile all’interno dell’International Theatre Studio Farm in the Cave. Ecco la nostra intervista a tutto tondo a Gioele Coccia.

Come ti definiresti?

«Le definizioni, in generale, mi spaventano un po’, ma se devo sceglierne una, direi che sono un esperto del movimento umano. Ho costruito la mia carriera intorno allo studio del corpo e del suo movimento in ogni sfaccettatura».

Dove sei nato e dove vivi?

«Sono nato in un quartiere popolare di Alatri, in provincia di Frosinone, e attualmente divido il mio tempo tra Roma e Praga».

E dove vorresti essere nato o vivere?

«Sono grato del luogo in cui sono nato, credo che sia parte integrante di ciò che sono oggi. Sogno di vivere sul mare. Amo la Sicilia, che sento molto vicina anche perché sono mezzo siciliano».

Quando e come è iniziato il tuo interesse per la danza e la performance?

«Fin da bambino amavo danzare e organizzare spettacoli con amici e cugini. La consapevolezza che la danza fosse uno studio serio è venuta quasi per caso quando, trascinato da mia sorella a un corso di aerobica, un’insegnante lungimirante mi ha incoraggiato a provare anche la danza. È iniziato tutto per gioco, ma non per caso».

Qual è stato l’incontro più significativo per la tua formazione?

«Senza dubbio quello con la coreografa Alessia Gatta. Con lei ho costruito le radici profonde del mio lavoro artistico».

C’è stato un evento o un incontro che ti ha cambiato radicalmente il modo di vedere le cose?

«Il Mapigo Project, ideato e realizzato in Tanzania, unisce danza, antropologia e pratiche partecipative. È stata un’esperienza immersiva e radicale che ha messo in crisi i miei riferimenti abituali, spingendomi ad ascoltare davvero, e a riscoprire la bellezza della vita autentica».

Mapigo Project
Mapigo Project

C’è una coreografia, non tua, che ricordi con particolare intensità?

«COMMANDER della compagnia Farm in the Cave diretta da Viliam Dočolomanský. Questa esperienza è stata per me il cazzotto sul plesso solare che cercavo».

Quali artisti e coreografi ti hanno maggiormente influenzato?

«Sono sempre stato mosso dalla curiosità e ho avuto la fortuna di studiare con molti maestri. Le figure che mi hanno ispirato più profondamente sono Eugenio Barba, Pina Bausch, Tadeusz Kantor e Jerzy Grotowski. Anche senza averli incontrati, ho studiato con attenzione il loro pensiero che influenza la mia ricerca artistica».

Com’è una tua giornata tipo?

«Non ho una giornata tipo e rifuggo la routine. Quando tutto si fa ripetitivo, cambio ritmo, anche senza accorgermene. L’unica costante: tanta acqua e caffè al risveglio».

Hai dei riti particolari prima di lavorare?

«Sì, prima di andare in scena ho bisogno di almeno un’ora di silenzio sul palco, per prepararmi ed entrare nello stato di presenza che la performance richiede. Chiedo sempre a tutti di evitare parole, rumori o distrazioni».

C’è spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«Certamente. Essere creativi significa anche gestire l’imprevisto. Nei miei progetti cerco di anticiparlo, ma so che una parte di inaspettato è inevitabile, e spesso preziosa».

Brandt Brauer Frick

Hai paura di quello che fai?

«Non è paura, ma un’insicurezza naturale di chi si espone. Sono molto esigente con me stesso, e questo mi spinge a cercare sempre di più, anche a costo di rallentare».

Hai avuto momenti di crisi nella tua carriera? Come li hai superati?

«Sì, ho vissuto diverse crisi, soprattutto durante il Covid, quando mi sono sentito abbandonato e inutile, al punto da pensare di smettere. Ma grazie al sostegno di persone vicine, sono riuscito a trasformare quel momento in una nuova prospettiva».

Come è cambiato il tuo rapporto con la tecnica nel tempo?

«La tecnica è per me una base solida, una cultura del movimento che si costruisce con pazienza: è più semplice per un corpo “acculturato” diventare strumento di comunicazione non verbale».

Come ti prepari fisicamente e mentalmente prima di una performance o di una creazione?

«Cerco di mantenere sempre un buon allenamento fisico, mangiando bene e limitando cattive abitudini come il fumo. Durante le creazioni adatto l’allenamento alle esigenze coreografiche e mi preparo mentalmente studiando a fondo il tema su cui lavoro».

Quando interpreti un lavoro di un altro coreografo, come ti rapporti con la sua visione mantenendo la tua autenticità?

«Quando lavoro per altri mi considero come uno strumento musicale in un’orchestra: faccio di tutto per suonare la musica che il direttore d’orchestra immagina, collaborando e offrendo sfumature diverse per raggiungere insieme l’obiettivo artistico».

Da dove trai ispirazione quando crei un tuo lavoro?

«L’ispirazione nasce dall’ascolto e dal contatto diretto con la realtà. Mi lascio guidare da esperienze vissute, incontri, contesti sociali specifici, spesso colti sul campo. Mi interessa osservare ciò che è fragile o marginale, trasformando tensioni e dettagli nascosti in materia creativa.

Attraverso il mio lavoro cerco di portare alla luce realtà spesso invisibili o trascurate, e mi interessa generare domande, confronto e dibattito con il pubblico».

Come si sviluppa un’idea fino alla messa in scena?

«Dopo un lunghissimo studio del materiale etnografico, antropologico o politico, la messa in scena è il risultato di una profonda fase di esplorazione extra-teatrale.

Non racconto mai una storia, ma cerco di farla emergere nel presente attraverso corpi, spazio, suono e ritmo».

Qual è il ruolo dell’improvvisazione nella tua pratica?

«Il ruolo dell’improvvisazione per me è centrale, non come fine, bensì come strumento di ricerca, scoperta e creazione. Non un gesto “libero” o “spettacolare”, ma è un processo guidato che aiuta a esplorare l’esperienza corporea e a costruire la drammaturgia basata sul corpo e sulle relazioni. Una volta definita la struttura, il lavoro sul palco diventa preciso e intenzionale, mantenendo tuttavia l’intensità nata dall’improvvisazione iniziale».

Che tipo di rapporto cerchi con il pubblico?

«Cerco una relazione esperienziale, diretta e trasformativa. Non voglio un pubblico passivo o distante, ma uno spettatore emotivamente partecipante, un corpo presente che viene toccato e interrogato».

C’è una performance che ricordi come particolarmente sfidante o gratificante?

«Tutte le mie performance sono sfidanti. Dal punto di visto corporeo, resistenza fisica e precisione del gesto sono centrali. Ma anche dal punto di vista mentale/emotivo bisogna essere allenati a “stare dentro” l’azione, non a mostrarla. MaskiA!, Maschile Ausiliare ne sono l’esempio lampante».

maskiA!

Come definiresti la tua poetica? Quali temi esplori?

«La mia poetica nasce da un approccio multidisciplinare e sperimentale, che fonde teatro fisico, danza contemporanea e performance site-specific. Al centro di tutto c’è il corpo, che considero lo strumento principale di narrazione, un vero e proprio archivio di memorie, tensioni e desideri. Il mio obiettivo è creare esperienze immersive capaci di coinvolgere lo spettatore sia sul piano sensoriale che emotivo.

Spesso lavoro su temi legati all’identità, alla memoria collettiva, al rapporto tra individuo e comunità, oltre che alle tensioni sociali e culturali. I miei lavori rappresentano l’esito di un’urgenza personale, e si arricchiscono attraverso ricerche sul campo e immersioni in contesti reali, spesso marginali.

Mi interessa molto esplorare argomenti come l’adolescenza e le culture giovanili, la fragilità – intesa come malattia o non autosufficienza –, l’ambientalismo, inteso come rispetto profondo per ciò che ci circonda, e l’impermanenza, cioè l’imprevedibilità della vita».

FARM IN THE CAVE

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

«Nei prossimi mesi sarò coinvolto in numerose attività internazionali. Il 2 ottobre presenterò un mio solo al Fall Festival di Praga e, a novembre, parteciperò al finissage della mostra Up in Flames di David Lynch al DOX Centre for Contemporary Art. A dicembre debutterò con una nuova creazione che rilegge i miei lavori passati in forma di CV performativo. In parallelo, sto lavorando a un progetto che riunisce la mia trilogia sull’identità di genere (DAsolo, MaskiA, Maschile Ausiliare) in un unico spettacolo multidisciplinare, attualmente in cerca di produzione.

Inoltre, il primo ottobre prenderò parte al Blood Cancer Summit presso l’Accademia di San Luca a Roma, dove sarà presentato in anteprima un cortometraggio da me diretto, commissionato nell’ambito di un progetto che unisce arte e scienza, un desiderio che coltivavo da tempo. Il film è il frutto di una ricerca lunga, profonda e delicata sul momento della diagnosi oncologica e sul suo impatto emotivo».

Cosa significa per te “davvero contemporaneo”?

«Per me, “davvero contemporaneo” è ciò che mette in crisi il modo in cui viviamo corpo, spazio, relazioni e tempo oggi, in modo autentico e non superficiale. È un’arte che affronta il presente sociale, corporeo e politico, mettendo in scena la vulnerabilità vera del corpo senza filtri o spettacolarizzazioni. È un linguaggio performativo che non illustra né segue l’egocentrismo dell’autore, ma fa vivere una presenza reale senza offrire risposte facili».

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