La leggenda ci racconta che Nefertiti era non solo bellissima ma anche bravissima nell’applicazione delle più avanzate tecniche di imaging spettroscopico. Infatti, un team di scienziati, in Germania, ha scoperto che un pigmento inventato e largamente usato dagli antichi egizi può essere molto utile oggi, come strumento innovativo in campo biomedico. Si tratta del blu egiziano, appunto, uno dei più antichi pigmenti artificiali usati nella storia dell’arte. Più di 4mila anni fa, serviva per decorare tombe e statue e possiamo ammirarne tutta la brillantezza sulla corona dell’iconico busto di pietra calcarea che raffigura la regina Nefertiti.
Risalente al periodo Amarna, al regno del Faraone Akhenaton della XVIII dinastia, il busto di Nefertiti venne ritrovato nel 1912, nel corso di una campagna di scavi condotta dalla Società Orientale Tedesca a Tell el-Amarna, nell’edificio denominato P 47,2, cioè il laboratorio del capo scultore Thutmose. Oggi il busto è di proprietà della Fondazione del Patrimonio Culturale Prussiano, il suo valore assicurativo ammonta a una cifra compresa tra i 390 e i 520 milioni di dollari – nemmeno poi tanti, considerando di cosa stiamo parlando – ed è esposto nella sezione egizia del Neues Museum di Berlino.
Sebastian Kruss, ricercatore dell’Università di Gottinga, ha utilizzato il pigmento, un composto di silicato di calcio e rame, per produrre un nuovo nanomateriale in grado di migliorare l’imaging spettroscopico e microscopico a infrarossi. Questo particolare blu, infatti, è un ottimo emettitore di luce e può essere utilizzato per macchiare piccolissimi campioni di materiale, in modo da farli risaltare con una risoluzione migliore al microscopio. L’imaging è una tecnica fondamentale nella ricerca biomedica, visto che, letteralmente, permette di vedere cosa sta succedendo.
Kruss ha spiegato ad Artnet di aver avuto l’idea dopo che uno studente aveva etichettato un campione con una penna con quel particolare blu egiziano e l’inchiostro è apparso al microscopio. Pochissimi materiali mostrano una fluorescenza vicina a quella dell’infrarosso, una parte di spettro luminoso che gli umani non possono vedere. «Abbiamo quindi iniziato a rimpicciolire sempre di più il pigmento del blu egiziano, per ottenere piccoli campioni utili per l’imaging biomedico», ha continuato Kruss. E incredibilmente, anche ridotto a una dimensione infinitesimale, per rendere l’idea, a una grandezza circa 100mila volte più sottile di un capello umano, il blu egiziano ha continuato a risaltare in maniera incredibilmente definita e brillante.
Secondo Kruss, questo nuovo “fluoroforo” potrebbe essere usato «per capire come si sviluppa un embrione o come le cellule si dividono ma anche in chirurgia, per etichettare un tessuto tumorale. Sono sicuro che sarà molto interessante per gli scienziati dei materiali e per la ricerca biomedica». E non solo, quindi, per tutti i visitatori del Neues Museum.
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