Per Pasolini la casa non fu mai un rifugio, semmai una minaccia. Casarsa era l’infanzia che brucia perché troppo pura per essere abitata senza tremare. Roma era la città-madre che non accoglie ma inghiotte, che ti offre una stanza solo per ricordarti che non ti appartiene. Tra queste due polarità, la casa diventava per lui un luogo instabile, una tana provvisoria, una ferita sempre aperta. Non un focolare ma un punto di esposizione. Non un rifugio ma una condizione morale. «Io sono una forza del passato», scriveva, «Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare». E quella genealogia spezzata gli impediva di adagiarsi in qualsiasi casa che odorasse di comodità o di destino compiuto. Pier Paolo Pasolini viveva sempre altrove, sempre in bilico, come se ogni tetto potesse franare da un momento all’altro. Era un uomo che conosceva la nostalgia delle origini e la brutalità del presente: per questo la casa era una ferita, non una consolazione.
Dentro questo paradosso si colloca la sua prima dimora romana, in via Giovanni Tagliere 3, a Rebibbia: un appartamento piccolo, ordinario, vissuto con la madre tra il 1951 e il 1954. Una casa povera, di periferia, che non aveva nulla di simbolico quando lui la abitava ma che oggi si rivela come il punto di rottura fra l’esule friulano e il poeta cittadino. Qui Pasolini non trovava “casa”, trovava Roma. La Roma che lo avrebbe definito per sempre: grande, scomposta, crudele, magnetica. Una Roma dove sentirsi straniero era l’unico modo per sentirsi vero. Non a caso, in Ragazzi di vita, scriveva: «Roma è un grande ventre che assorbe tutto». E lui, giovane e spaesato, era uno dei tanti assorbiti senza garanzie, senza protezioni.
Eppure, negli anni, quella stessa casa è stata dimenticata. Consumata dal tempo, persa nei labirinti delle eredità, lasciata scivolare come un oggetto qualsiasi fino a finire all’asta: quasi un’umiliazione. La città che Pasolini aveva raccontato – e spesso sopportato – si è comportata con lui come fa con i poveri: li lascia cadere, poi se ne accorge quando è troppo tardi.
Ma questa volta qualcuno l’ha guardata davvero: il produttore Pietro Valsecchi, mosso più da un pudore civile che da un intento collezionistico, l’ha acquistata e donata allo Stato. Un gesto semplice e decisivo, che ha permesso alla Direzione Generale Musei e all’Istituto Pantheon e Castel Sant’Angelo di riportare l’appartamento alla sua atmosfera originaria e restituirlo alla collettività. Come se quel luogo, per esistere davvero, avesse avuto bisogno di passare attraverso l’abbandono. «Gli oggetti hanno una loro anima», diceva Pasolini parlando delle cose povere: questa casa l’ha dimostrato.
Oggi Casa Pasolini, inaugurata il 26 novembre 2025, non è una casa trasformata in reliquia ma un luogo che respira. Nelle stanze tornate luminose si sente la misura essenziale di quella vita: il pavimento originale in graniglia rosata, il bianco delle pareti che accoglie la luce, i pochi arredi scelti senza esagerazione. Non c’è retorica, non c’è mitologia domestica. C’è una sobrietà quasi ostinata, la stessa che Pasolini cercava negli spazi delle borgate quando fuggiva da ogni forma di comfort borghese. La casa non è stata “abbellita”, è stata resa vera. «Preferisco le case brutte, dove si vive davvero», confessava nelle sue interviste più rabbiose. Qui quella frase sembra vibrare letteralmente sulle superfici.
In queste stanze si svolgeranno attività educative, incontri, letture, laboratori, proiezioni, pensati come estensioni naturali di ciò che la sua opera continua a insegnare: che la cultura appartiene ai margini almeno quanto ai centri e che i luoghi più importanti non sono quelli monumentali ma quelli che resistono. Casa Pasolini diventa così una piattaforma culturale diffusa, aperta gratuitamente, costruita in dialogo con il territorio. Un gesto politico, prima ancora che museale. Pasolini stesso lo avrebbe approvato: «Bisogna andare verso il popolo, non aspettare che il popolo venga da noi». È esattamente ciò che questo progetto sembra voler fare.
E in questo contesto trova posto, senza sovrastarlo, la mostra fotografica La verità non sta in un solo sogno ma in molti sogni, curata da Matilde Amaturo e Sabrina Corarze. Una selezione di 40 scatti che restituiscono il mito alla vita quotidiana: volti di persone vicine a lui, scene di set, momenti rubati tra un lavoro e l’altro, frammenti di periferie e incontri. Le foto vogliono comprendere la casa, mostrano il tessuto umano in cui Pasolini si muoveva, quella rete di relazioni sincere che per lui valevano più di qualunque appartamento. La casa, per lui, erano gli altri. Lo diceva senza ambiguità: «Io non ho una casa. La mia casa è la strada».
Ed è forse questo il merito più grande dell’intero progetto: aver compreso che la casa era un luogo non da monumentalizzare ma da riaprire. Non una sacralità da proteggere ma una storia da rimettere in circolo. Casa Pasolini è oggi uno spazio dove la vulnerabilità diventa memoria attiva, dove l’assenza si fa strumento di conoscenza, dove la periferia è un centro da cui ripartire. Una casa che non consola, non rassicura, non chiude. Una casa che – come Casarsa e come Roma – non è mai rifugio, è destino.
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