Più che una performance, è un ambiente multisensoriale quello creato da Giovanna Ricotta (Loano, Savona, 1970). La bianchissima prima sala ospita tre danzatrici di nuoto sincronizzato sedute a terra, raffinate nei loro costumi anni Venti, che si alternano in gesti eleganti e ripetuti, sollevando e posando dei saponi alla vaniglia con un movimento fluido, lento e circolare. Replicano nello spazio, insieme alle fotografie appese alle pareti, l’immagine dell’artista, svilendone l’aura di unicità e mercificandone la presenza.
Solo così le perfomers possono diventare “semplici porta oggetti: quattro deliziose porta saponette umane” scrive Fabiola Naldi, alla stregua di tutti gli elementi presenti in scena, multipli prodotti nel laboratorio creativo che ha per marchio di fabbrica le iniziali dell’artista.
Nella seconda sala, Ricotta prosegue gli ondeggiamenti già visti nelle sue copie, ma calata entro volute di luci stroboscopiche, essenze profumate e sciabordii elettronici che rendono l’ambiente rarefatto. Ci si trova letteralmente immersi. Un po’ quello che accade quando si fluttua sott’acqua, ci si lascia trasportare, andare senza meta, appena lambiti dal baluginìo della luce che filtra dall’alto e sfiorati da suoni ovattati, distanti. E’ il momento in cui si percepisce chiaramente il proprio battito cardiaco, il tactus che permette di dare una misura al mondo con la propria intimità, di valutare tutto ciò che è esterno con una personalissima e segreta scala di valori e così trovare la consapevolezza del proprio esserci. Malauguratamente dalle nuotatrici arriva un avvertimento: è fallace questa deriva dei sensi. Proprio loro, le prime artefici della danza persuasiva e liberatoria, non possono percepire la fragranza di vaniglia che pervade la sala, sono le prime a soffrire a causa dei tappa nasi d’ordinanza, di una insolita anosmia. Non solo, anche le cuffie pesanti non permettono loro di sentire le pulsazioni ipnotiche della musica.
Così, proprio le nuotatrici richiamano gli spettatori “a galla”, ricordando loro la difficoltà di un abbandono dei sensi per arrivare al senso ultimo, alludendo ad un definitivo No Sense, in bilico tra l’anestesia e l’incapacità di trovare significati.
Non può sfuggire un riferimento a Vanessa Beecroft, nell’attenzione alla ricerca estetica della composizione, da tableaux vivants, così come tornano alla mente i busti-autoritratti o i cubi di Janine Antoni. Realizzati proprio in sapone, materiale che nella sua banalità da oggetto del quotidiano, sembra rinviare alla sfera privata e femminile.
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