Per le persone della mia generazione, nate all’inizio degli anni Sessanta, il Pinocchio sullo schermo era lo sceneggiato di Luigi Comencini diffuso dalla Rai nel 1972: un’elegia ad un’Italia semplice e contadina.
Erano cinque puntate, che fecero innamorare il Paese delle candide espressioni del bambino-burattino, uscito dalla penna di Carlo Collodi e interpretato da Andrea Balestri, in compagnia di un meraviglioso Nino Manfredi nei panni di Mastro Geppetto, e dello sguardo acceso di Gina Lollobrigida, la Fata Turchina.
Anche sugli altri personaggi nulla da dire con i due popolari comici Franco Franchi e Ciccio Ingrassia come il Gatto e la Volpe, e Vittorio De Sica nei panni del Giudice: tant’è che Paolo Meneghetti dichiarò il cast “perfettamente azzeccato”, valorizzato da una colonna sonora firmata da Fiorenzo Carpi.
Girato nei borghi medievali dell’Alto Lazio con mezzi limitati, Comencini raccontò con il suo Le avventure di Pinocchio un Paese straordinariamente autentico e poetico, che si rifletteva nello sguardo sbarazzino e furbetto del protagonista.
Dopo poco più di 45 anni, uno dei più talentosi registi italiani come Matteo Garrone ripropone sul grande schermo un nuovo Pinocchio, caratterizzato da un’interessante autorialità, con risultati altalenanti. Splendide le scene di una campagna toscana ancora arcaica e primitiva, che si uniscono alle ambientazioni marine in Puglia e nel Lazio, a fare da bucolico sfondo ad un racconto inframmezzato da luci e ombre. Strepitoso Geppetto mirabilmente interpretato da un Roberto Benigni in stato di grazia, quasi ad equilibrare il carattere più distaccato di Federico Ielapi nel ruolo di Pinocchio, truccato da burattino di legno. Notevole Gigi Proietti nel ruolo di Mangiafuoco, mentre meno incisivi appaiono il Gatto e la Volpe (rispettivamente Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini) e un Lucignolo opaco e insignificante. Senz’altro un pezzo forte del film sono gli effetti speciali, affidati ad un grande professionista come Marc Coulier, che aggiungono alla trama un effetto fantasy, con riferimenti a Tolkien e Grandville, senza però aggiungere più di tanto umanità e poesia alla pellicola, tecnicamente ineccepibile ma emotivamente tiepida e a tratti calligrafica.
Fatta eccezione per la parte della storia nella quale Pinocchio e Lucignolo si trasformano in asini: lì il film vola e ritroviamo il filo delle grandi narrazioni cinematografiche italiane, da Fellini ai Taviani fino al Garrone più grande, dall’Imbalsamatore a Gomorra.
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