Lacci, il film d’apertura della 77ma Mostra del Cinema di Venezia, è diretto da Daniele Luchetti e sceneggiato dallo stesso Luchetti, da Francesco Piccolo e da Domenico Starnone, autore del romanzo di partenza, edito qualche anno fa da Einaudi. La storia è quella di Aldo e Vanda, coppia appartenente alla borghesia intellettuale, interpretata da Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher. Il film racconta innanzitutto la crisi del loro rapporto, nella Napoli degli anni Ottanta, ma è anche strutturato su un doppio colpo di scena, legato all’intreccio tra passato e presente. Nella contemporaneità sono Silvio Orlando e Laura Morante a ereditare il ruolo dei protagonisti.
La sequenza iniziale del film si svolge durante una festa di adulti e bambini. La macchina a mano ci catapulta, vibrante, nel bel mezzo di un ballo collettivo: si vorrebbe che questo rituale di gruppo fosse un momento gioioso ma già si intravedono ansie e malumori. La prossimità ai volti e ai dettagli, l’assenza di un’inquadratura ampia che ci faccia comprendere meglio lo spazio e anche la mancanza di precise spiegazioni narrative: tutto contribuisce a dare allo spettatore un certo senso di claustrofobia. In seguito, lo stile del film si normalizza, diventa più classico ma permane, in modo sottile eppure netto, una dimensione oppressiva e asfittica.
Non che manchino scene in esterni, a Napoli ma anche a Roma, anzi, gli scorci delle due città sono ben scelti e icastici, nella resa delle atmosfere di ieri e di oggi. Gran parte del film si svolge però in interni, soprattutto tra le mura di due appartamenti, la cui collocazione nella geografia partenopea – l’uno nella Napoli più popolare, probabilmente ai Quartieri Spagnoli; l’altro in un elegante angolo del Vomero –, denota una profonda consapevolezza delle dinamiche socio-culturali in gioco, oltre che dei vissuti esistenziali. Questi due spazi domestici finiscono per diventare delle vere e proprie gabbie, facile ma perfetta metafora della coppia come cappio, del gioco relazionale come giogo, del legame come, appunto, laccio soffocante.
Tra l’interno di queste case e l’ambiente esterno non sembra esserci una vera possibilità di comunicazione. Le soglie, che siano porte o finestre, vengono attraversate e visualizzate solo in alcuni, cruciali momenti di disperazione e di fuga. E infatti tutto il film ruota attorno al tema della difficoltà di portare fuori quello che si ha dentro, di esprimere la propria interiorità e di farsi capire dall’altro, che sia tramite l’affetto o il risentimento.
Il protagonista maschile si mostra sin dall’inizio assai problematico da questo punto di vista: nonostante sia un giornalista e critico letterario, Aldo è del tutto incapace di usare le parole per spiegare, pur minimamente, i propri sentimenti, e finisce per emergere come una personalità inetta, in cui alla vigliaccheria si accompagnano aggressività e presunzione. Vanda, d’altronde, non è meno indisponente: in apparenza più risoluta, è in realtà intrappolata in una lotta melodrammatica monocorde e ossessiva per un obiettivo (la salvezza dell’unità familiare) che, nel suo rifiuto anacronistico di ogni possibilità di emancipazione, forse non corrisponde nemmeno a ciò che ella vuole davvero.
I personaggi sono insomma accomunati da una sgradevolezza di fondo: lo spettatore che cerchi un appiglio identificativo duraturo rimarrà frustrato. Alla fine, tutte le persone coinvolte risulteranno “compromesse” dalla negatività di questo ritratto spietato, ivi compresi i figli della coppia. Interpretati da adulti da Giovanna Mezzogiorno (coraggiosa nel mostrarsi tanto sciatta) e Adriano Giannini (efficace come yuppie guappo), i due arrivano tardi sulla scena ma lasciano un’impressione perdurante, delineando due figure spiacevoli e spiazzanti.
Il vero problema del film sta, in verità , proprio nel poker di attori principali. Non che non siano bravi, la loro consumata professionalità è fuori discussione. Si può preferire Morante alla Rohrwacher e Orlando a Lo Cascio, ma queste sono, a un certo livello, anche idiosincrasie personali. Si ha però più volte la sensazione che le personalità ingombranti degli interpreti impediscano di mettere pienamente a fuoco i personaggi. E la questione diviene ancora più annosa allorché, a metà film, dobbiamo risintonizzarci sulla nuova versione dello stesso personaggio fornita da un’altra star altrettanto famosa. Può anche darsi che le sfasature di tono siano volute (Morante risulta più pacata di Rohrwacher perché la sofferenza di Vanda si è placata?), ma l’effetto complessivo è quello di un affaticamento. E ci si trova, forse anche vista l’origine letteraria, ad anelare a un film che sia un vero studio dei caratteri e non uno show recitativo, pur di alto livello.
Detto questo, l’operazione rimane comunque tutt’altro che malriuscita. La riflessione di Luchetti, Starnone e Piccolo sulla famiglia come scenario di involuzione, in cui è impossibile elaborare i conflitti e crescere insieme, in cui le complicità funzionano solo in negativo e cova invece un risentimento che riverbera tra le generazioni, è portata avanti con acume. Nel delineare gli incastri di potere che si annidano negli affetti, Lacci riflette sulla libertà e sulla violenza, e non fa sconti a nessuno.
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