Mors, ResExstensa, Picasphoto
«Il tarantismo è una mappa antropologica del conflitto umano, dove si confrontano uniformità e differenza, controllo e abbandono, follia e salvezza. Un rito di sopravvivenza e di conoscenza, in cui l’individuo, ferito o “posseduto”, viene restituito alla comunità attraverso il movimento e il suono». La coreografa Elisa Barucchieri introduce con queste parole lo spettacolo Dittico delle radici, titolo a serata intera da lei ideato per la compagnia ResExstensa (debutto al Teatro Piccinni di Bari) che comprende Mors e Wolf Spider, un affondo su quel fenomeno sociale e culturale che è il tarantismo, indagato quale archetipo universale le cui radici sono in Puglia, nel territorio del Salento. Due diverse coreografie e firme – di Elisa Barucchieri Mors, e del collettivo Kor’sia Wolf Spider -, due visioni differenti, tra mito e contemporaneità, tra passato e presente, collegati da un unico filo rosso.
Al tarantismo è spesso associato, nell’immaginario collettivo, il ballo popolare della pizzica, danza di festa e di corteggiamento oggi fenomeno di moda. Niente di questa danza tradizionale, folkloristica, è presente nei due spettacoli, piuttosto una elaborazione astratta, una rappresentazione del rito del tarantismo riletto in chiave contemporanea, con uno sguardo nel presente.
Mors, ovvero il morso del ragno, della tarantola, si ispira ai culti antichi della Divinità una e trina, le cui caratteristiche di creatrice, distruttrice e trasformatrice, si incarnano nel ragno, nello scorpione e nel serpente, figure archetipe e raffigurazioni, nei secoli, del male, della guarigione e del desiderio di rinascere. Archetipo femminile e archetipo animale trovano una sintesi nella scrittura coreografica di Barucchieri che fa del corpo “pizzicato” dalla tarantola, della ferita inferta, un corpo attraversato dal sacro, mosso dalla necessità di danzare per sopravvivere, per ricordare, per rinascere.
Sulla partitura musicale live di Francesco Dracca – tastiere, percussioni, effetti acustici -, accompagnata dalla voce della stessa coreografa, si compone un paesaggio sonoro che, subito in apertura di spettacolo, evoca deserti, spazi ancestrali, quasi un’origine del mondo, con tre danzatrici a terra, vestite di bianco, illuminate una alla volta dentro un cono di luce.
Un risveglio, il loro, una nascita, che muove dall’articolazione degli arti tutti, da inarcamenti del busto, da posture in tensione a terra e in posizione eretta, da scatti argillosi, da sinuosità serpentine e rotolamenti avvolgenti. Sono emanazioni di figure animali e mitologiche, e incarnano la forza femminile, corpi come luogo di resistenza e conoscenza. Al ritrovarsi in triade, intrecciandosi in movimenti allertati a comporre un’unità, nel dipanarsi dei gesti di una danza fluida e rituale, trova eco il respiro del tempo, della memoria dei corpi che l’abbagliare pulsante di fari frontali rivolti in platea, sembra indicare la metamorfosi in atto, la ferita che si fa luce. Al chiudersi del sipario l’avanzare percussivo dei tamburelli segue l’irruzione in proscenio di altre due sinuose figure femminili. Sono ancora il ragno sfuggito al controllo umano, che riappare nei campi assolati del Sud, pronto a pungere ancora.
L’aprirsi nuovamente del sipario, ci immette così nella scena del secondo spettacolo: Wolf Spider. A firmarlo sono Mattia Russo e Antonio de Rosa dei Kor’sia, un affermato collettivo di base a Madrid. Tra le molte commissioni che i due coreografi ricevono in giro per l’Europa, c’è stata, lo scorso anno, anche Wolf Spider per la compagnia ResExstensa (ne scrivevamo qui). Mito, tradizione e contemporaneità, nello stile di Kor’sia si intrecciano in un unicum dalla scrittura coreografica stilizzata e cinetica, rarefatta ed esplosiva, minuziosa e aperta, dove i danzatori attingono, nell’idea, all’emblematica “tarantata” – la figura vittima del morso del ragno -, ma restituita in movimenti traslati, astratti, evocativi.
Subito in apertura di spettacolo, immerso in una foschia, c’è un forte elemento scenico, un grande trombone, il cosiddetto Susafono, che ricorda le bande musicali che accompagnano le processioni popolari tipiche del Meridione. Dei tamburelli neri assumeranno altre forme: oltre a strumento percussivo, diventano anche cappelli e cesti per la semina.
Nelle danze che via via si susseguono anche i gesti e i movimenti assumono significati diversi, e diventare, per esempio, rami d’albero (come quelli degli ulivi, riferimento a quelli morenti causati da un batterio, che ha colpito la Puglia), ma capaci di rigenerarsi; o il battito insistito dei piedi, i cerchi, le corse, che richiamano la pizzica, e il ritmo ossessivo, corale, che sprigiona energia, euforia, senso di festa, di rinascita. Un rito collettivo, corale, di grande impatto, la pulsazione arcaica della guarigione.
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