È tutto nelle vibrazioni interne agite, nei micromovimenti di tutto il corpo e nelle impercettibili nervature che lo muovono; nelle posture appena scultoree e nei rimandi pittorici che subito si dissolvono lasciando un’impronta nella mente. È, ancora, nella tensione dello sguardo; nel gesto terreno e angelicato, forte o pacato; nell’immobilità mossa e nel movimento trattenuto; nella veglia e nel sonno dei sensi. È in tutto questo, e in molte altre suscitabili visioni, la beatitudine del martire-guerriero San Sebastiano incarnato ed evocato dal danzatore Giovanni Marino, capace di introspezione intima restituita nel baluginare di slanci chiaroscurali catturati nella memoria del tempo passato e presente. A plasmarne le fattezze fisiche e spirituali con una danza magnetica e vibrante germogliata da una ricerca simbiotica tra due menti creative, è il coreografo Michele Pogliani, da sempre affascinato dalla figura del militare romano morto martire per aver sostenuto la fede cristiana, e rappresentato in tanta iconografia religiosa legato ad un albero trafitto da frecce e in estatica contemplazione o moribondo. Qui non lo è più.
Stimolato particolarmente da un poemetto di Silvia Bre ispirato a una statua di marmo, e definito dalla scrittrice “…un Sebastiano qualunque”, Pogliani titola l’installazione coreografica Je ne suis pas san Sebastien (creazione che ha debuttato al Festival Dancescreen in the Land, nel piccolo spazio della Fornace del Canova a Roma, e successivamente al Museo Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare), immaginando il santo un uomo qualunque nelle diverse fasi della vita, uno o nessuno di noi, chiunque votato a una causa, a un obiettivo, a un credo vagheggiato.
Immerso in un onirico paesaggio virtuale di campi di grano, di magma vulcanico, di mare in tempesta (visual design Luca Attilii), e attraversato da sonorità elettroniche di vento, di risacche marine, e altri elementi della natura (sound design Maurizio Bergman), il giovane intenso performer Giovanni Marino sospende il gesto, lo vibra come arco teso, lo scioglie nel cedimento di tutto il corpo, lo rimodella nel fiato che lo nutre. Lotta, geme, si erge fiero, fino a ritornare in uno stallo emotivo e depositarsi in un centro gravitazionale. Che è spazio vitale, di morte e resurrezione, di sacrificio sublimato, con la proiezione della sua stessa immagine deposta e, contemporaneamente, viva davanti a noi, mentre una voce suggella la sua anima: «Vengo abbandonato tra le frecce. Ma non muoio. Invece è come nascere tra loro…è così che si muore ve lo dico: sempre perdendosi per sempre…La chiarezza: un abisso».
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