Categorie: Diritto

Legge ‘del due per cento’: ipotesi di riforma

di - 11 Gennaio 2002

La legge 29 luglio 1949, n.717, intitolata Norme per l’arte negli edifici pubblici, è conosciuta generalmente come legge del 2 per cento in quanto prevede il principio secondo il quale il “2 per cento” delle somme destinate alla costruzione di “edifici pubblici”, deve essere destinato obbligatoriamente “all’abbellimento di essi mediante opere d’arte”. Una legge di cui si fa generalmente menzione parlando della sua disapplicazione oppure, paradossalmente, della sua aberrante osservanza.
L’idea che aleggia sullo sfondo di essa, è quella che ogni volta in cui ci si accinga a costruire o ricostruire un edificio pubblico, ci si debba impegnare a realizzare non soltanto un prodotto “bello” ma complessi architettonico-artistici che esprimano i valori estetici del momento presente, in cui “le masse possano riconoscersi e ai quali possano venir educate”. Un’impostazione ch apparirà immediatamente animata da uno spirito totalitario e quindi in contrasto con i valori democratici repubblicani. In effetti, forse, l’inefficacia della legge risiede proprio nell’incapacità di dare un’interpretazione evolutiva serena a un testo fortemente caratterizzato ideologicamente.

Non va infatti sottaciuto che il vero artefice di questa legge è stato Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale nel governo fascista dal 1936 e principale “legislatore” delle normative in tema di beni culturali ancor oggi in vigore (ad esempio la 1039/39 o la 1497/39). Il testo originario della legge “del due per cento” -“stranamente” ridatata al 1949- è infatti del 1942 (L. 11 maggio 1942, n.839) ed era il frutto di un’intenso dibattito culturale che Giuseppe Bottai aveva svolto su diverse pubblicazioni che lo vedevano promotore (in primo luogo la rivista “Primato/Lettere e Arti d’Italia”) alle quali partecipavano tra l’altro attivamente numerosi intellettuali che poi diventeranno nel dopoguerra i principali esponenti della cultura, anche di sinistra (Argan, Buzzati, Antonioni, Gadda, Longanesi, Montale, Quasimodo, Montanelli, Ungaretti…).

Condannato a morte in contumacia a Verona, e successivamente all’ergastolo dall’Alta Corte di Giustizia una volta finita la guerra, Giuseppe Bottai venne poi amnistiato nel 1947. La “sua” legge venne modificata parzialmente, ridatata (quasi fosse un fiore della Costituzione repubblicana del ‘48), e stese un velo su tutto l’impianto concettuale ed istituzionale che ne era alla base. Non dimentichiamo che Bottai intendeva portare avanti un progetto culturale e politico di ampio respiro in cui l’arte doveva svolgere un ruolo primario.
A capo di un ministero da cui dipendono le Accademie di Belle Arti, nel 1940 crea l’Ufficio per l’Arte contemporanea con il compito di svolgere attività di incoraggiamento del collezionismo privato e delle gallerie d’arte, nonché di coordinamento degli interventi in materia di arte contemporanea e che portò all’istituzione in varie città (ad esempio Asti, Milano, Torino, Palermo) di strutture di tipo associativo denominate Centri di azione per le arti, che ebbero un ruolo molto importante per gli artisti di quel periodo. Inoltre promuove direttamente premi d’arte come ad esempio il prestigioso Premio Bergamo (dal 1939 al 1942) nel quale, a differenza di altri concorsi per artisti in cui si cercava di compiacere il regime (come il Premio Cremona, ideato dal gerarca Roberto Farinacci) si vide emergere un dibattito artistico di una certa rilevanza e non privo di apertura di vedute a giudicare dal fatto che l’opera Crocifissione di Renato Guttuso, pregna di critica nei confronti delle brutture della guerra, e quindi del regime, vinse il Premio Bergamo nel 1942.

Ma può la legge del due per cento vivere al di fuori di un’idea in cui lo Stato si fa carico in senso profondo e “viscerale” della promozione delle arti? Non sembra proprio, vista la sua applicazione e (spesso) disapplicazione negli ultimi cinquant’anni. Una legge quasi sempre usata male o addirittura abrogata per desuetudine, malgrado il legislatore sia intervenuto più volte ad apportare modifiche per correggere criteri economici e meccanismi di scelta (L. n. 237/1960; L. n. 352/1997).
Il fatto è che occorre fare serenamente i conti con il passato e attribuire il giusto peso nel nostro ordinamento ad una legge in fondo buona, e che potrebbe dare un forte impulso all’arte e all’economia che ruota attorno al fenomeno artistico. Finora così non è stato. Nella legge-delega al governo per l’emanazione del testo unico in materia di beni culturali del 1997, la legge del due per cento fa ancora una volta capolino sulle pagine della Gazzetta Ufficiale ma non viene poi ad essere inclusa nell’importante raccolta normativa successiva. Il che la dice lunga sull’atteggiamento generale nei confronti di questa legge, quasi ad affermare platealmente che “l’arte negli edifici pubblici” è arte per modo di dire.

Abbastanza curiosamente la legge poi non è inserita neanche nelle raccolte normative sugli appalti pubblici, malgrado la “legge del 2 per cento” preveda sanzioni “teoricamente” gravi (ad esempio la non collaudabilità dell’edificio). Sanzioni gravi solo sulla carta perché mancano controlli e una vera coazione.
E così, al di fuori di un’impostazione che impone alle amministrazioni di fare delle scelte di ordine estetico ben precise e cioè delle scelte culturali e politiche sull’arte (ci vuole coraggio oltre che competenza), la legge diviene solo un “curioso” strumento normativo per la spartizione di fondi pubblici tra amici e conoscenti, favorendo clientelarismi. E, fatto ancor più grave, vengono a deturparsi piazze, cortili e corridoi (su cui il cittadino è costretto a poggiare gli occhi ogni santo giorno) con opere di pessimo gusto e prive di qualsiasi contenuto “estetico” e “storico”, prive di significato e di valore economico (questo è molto indicativo). Esistono delle eccezioni, ma questa è stata sinora la tendenza. Vi sono schiere di artisti che “vivono” di arte pubblica (e non li troveremo mai in nessun museo) e molti altri che sperano un giorno di essere favoriti da questa manna…

Si è persa del tutto la consapevolezza della ratio di questa norma. Addirittura in alcuni casi viene vista come un palliativo contro la disoccupazione dei giovani artisti… La legge dovrebbe invece essere letta in correlazione ai principi costituzionali secondo i quali “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura” e “L’arte e le scienze sono libere”, e “I pubblici uffici sono organizzati (…) in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” di cui essa dovrebbe essere la più vera espressione. Applicare correttamente la legge dovrebbe cioè significare “fare cultura”, educare i cittadini all’arte, attraverso la preziosa vetrina degli spazi pubblici, ossia promuovere l’arte e non gli artisti (o il politico di turno).

La vera pecca della legge del due per cento è, a ben vedere, anzitutto quella di non imporre a priori un giudizio effettivamente competente sulla importante scelta da operare. Si stabilisce infatti che “La scelta degli artisti per l’esecuzione delle opere d’arte (…) è effettuata, con procedura concorsuale, da una commissione composta dal rappresentante dell’amministrazione sul cui bilancio grava la spesa, dal progettista della costruzione, dal soprintendente per i beni artistici e storici competente, e da due artisti di chiara fama nominati dall’aministrazione medesima” (art. 2).
Per fare un esempio irriverente è come se un’operazione a cuore aperto venisse fatta dal capo dell’ufficio bilancio della USL, dal progettista del tavolo operatorio, da un dentista e da altri due malati…

In un concorso indetto da un Comune avremo quindi in commissione: il sindaco (nessuna preparazione richiesta), il progettista della costruzione (ingegnere, architetto o geometra), il soprintendente ai beni artistici e storici competente (laureato in lettere: preparazione di tipo storico-artistico), due artisti “di chiara fama” (basta insegnare in una scuola d’arte e avere un’opera esposta in qualche museo privato di provincia e si diventa subito a pieno titolo artisti “di chiara fama”). Tra l’altro la presenza degli artisti in commissione non è altro che il retaggio del corporativismo fascista e che risulta oggi del tutto anacronistico e fuorviante. Manca invece del tutto, e questo è gravissimo, nella previsione legislativa, la figura del critico d’arte contemporanea che in una scelta specifica del genere dovrebbe avere ovviamente un peso prevalente. Questo è il punto su cui dovrebbe appuntarsi la riforma che proponiamo.

Si potrebbe ad esempio stabilire l’istituzione a livello nazionale di un albo di soggetti qualificati -come direttori di musei d’arte contemporanea, docenti universitari di arte contemporanea, critici d’arte “di chiara fama” (si possono stabilire dei criteri)-, al quale di volta in volta le amministrazioni territoriali possano attingere per costituire le commissioni cui è rimessa la scelta delle opere da collocare negli edifici pubblici di nuova costruzione. L’articolo 2 della legge 717 del 1949 potrebbe essere quindi ad esempio così riformulato: “La scelta degli artisti per l’esecuzione delle opere d’arte (…) è effettuata, con procedura concorsuale, da una commissione composta dal rappresentante dell’amministrazione sul cui bilancio grava la spesa, dal progettista della costruzione, dal soprintendente per i beni artistici e storici competente, e da tre critici d’arte designati dall’aministrazione medesima sulla base dei nominativi presenti nell’apposito elenco depositato presso il ministero dei beni culturali” (art. 2).
In questo modo ci sarebbe un bilanciamento tra le diverse esigenze: politiche, tecniche, di tutela del patrimonio artistico esistente, di scelta sull’arte che deve essere creata quale testimonianza dei nostri tempi.

Inoltre, nel quarto comma dell’art. 1 che prevede i casi nei quali la legge non debba trovare applicazione, sarebbe opportuno eliminare la previsione secondo la quale “gli alloggi popolari” non usufruiscano di tale beneficio. Si tratta di un’esclusione introdotta nel ’49 forse per un motivo di grave penuria di risorse finanziarie, che appare oggi però visibilmente antidemocratica e miope, se si pensa a tanti felici esempi di edilizia popolare “artistica” in Europa, come le case popolari di Hundertwasser a Vienna, visitate ogni anno da migliaia di turisti.
Altro aspetto importante è quello di garantire l’effettiva osservanza di questa legge, e ciò può essere conseguito anche attraverso apposite strutture ministeriali di monitoraggio sulla sua concreta applicazione.

Concludiamo: i meccanismi di scelta delle “opere d’arte” attualmente previsti dalla legge non fanno che rendere l’importante settore dell’arte pubblica un ambito ormai quasi del tutto sterile e praticamente sottratto al mondo dell’arte della nostra epoca, impedendo anche qualsivoglia ipotesi di rinnovamento dell’idea stessa della monumentalità pubblica.

forum correlati
il forum sull’arte pubblica
apparati
Legge 29 luglio 1949, n.717 (in G.U. 14 ottobre 1949, n.237) – Norme per l’arte negli edifici pubblici. (testo in vigore: così come novellato dalle LL. n. 237 /1960 e 352/97)
Legge 11 maggio 1942, n.839 (in G.U. 5 agosto 1942, n.183) – Legge per l’arte negli edifici pubblici.

Ugo Giuliani

[exibart]

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  • Non è un caso che questo articolo sia seguito da così tanti commenti; è intelligente e molto interessante, anche (molto) attuale.
    I miei complimenti a Ugo.

  • Cara Valentina di Palermo,
    ti assicuro che in genere gli articoli idioti hanno anche più commenti, cerca un pò in Exibart e resterai sorpresa.
    Certo, altre sono le cose che scriviamo.
    Diciamo che questo articolo si distingue per la qualità, anche se pecca di acume.
    Ma non la considererei una patente, un passaporto.
    Vedremo il prossimo.
    Ciao, Biz.

  • ho letto anch'io articoli brutti seguiti da commenti altrettanto idioti. Volevo dire che qui almeno si accenna al dibattito. Anche i suoi commenti, gentile signor biz, a volte sono sprecati per articoli che proprio non lo meritano.

  • L'articolo affronta un tema scottante, sul quale ho avuto modo di dare in certo qual modo il "LA" su un forum di exibart.
    Per anni nel sindacato artisti delle Cgil si è discusso in merito all'uso della legge del 2%. Purtoppo, ahimé, ho dovuto constatare che quelli che più ne parlavano nel gruppo dirigente nazionale, sono gli stessi che in base a oscuri canali ne hanno maggiormente usufruito (vedasi l'opera che adorna l'aeroporto di Genova). Per quanto concerne il suo rilancio, ed il suo corretto uso sono perfettamente in sintonia con l'articolo di Ugo Giuliani. Non ne condivido però un aspetto, quello relativo alla figura del cosiddetto "critico d'arte". Così come oggi è difficile distinguere un artista da un imbianchino è parimenti difficile dare sostanza al "critico d'arte". Io sono invece daccordo alla presenza, nell'ambito di una commisione composita, di uno "storico dell'arte" la cui chiara od oscura fama è sempre discutibile come del resto la qualità di un artista. Ormai la mia concezione dell'arte è quella di artista come soggetto che tramanda una cultura finalizzata al messaggio simbolico (arte esoterica) per cui sono lontano anni luce dalle false estetiche della cosiddetta "arte moderna". Sono invece persuaso che una buona leva di nuovi maestri artisti - artigiani ha bisogno di strumenti di tutela legislativa che ne garantisca quantomeno il diritto ad una pensione.

  • Personalmente mi fido solo degli "storici" dell'arte contemporanea. Non dei "critici". Per quanto riguarda le leggi, cerco di consolarmi pensando che il testo unico è stato approntato con l'intenzione di essere una legge di passaggio, in attesa di una vera legislazione. Subito dopo mi dispero pensando che la legge precedente sui beni culturali è datata 1939. Saranno necessari altri 60 anni prima di avere una LEGGE e non un calderone di contraddizioni?

  • Cara Sara,
    tu sei convinta che uno "storico" sappia individuare un Loris Cecchini, un Francesco Vezzoli, un Botto&Bruno o un Bianco-Valente per finalmente non detupare gli uffici del pubblico impiego?? Io purtroppo credo che gli storici dell'arte contemporanea si interessino più di Cassinari che della Beecroft, più di Tadini che della Toderi, più di Salvatore Fiume, di Aligi Sassu, di Sandro Chia,

  • Caro Janaz,
    ciclicamente sono in accordo o in disaccordo con te;
    In entrambi i casi mi piace leggerti, sempre.
    Questa però è la volta del disaccordo.

    Se condivido lo spirito del tuo intervento, che mi sembra piuttosto lucido e non troppo lontano dalla verità, devo tuttavia trovare la ragione più in ciò che ha scritto Sara Magister.
    Gli storici dell'arte forse non daranno attenzione alla Beecroft, di contro mi pare che i critici ne diano troppa a Rabarama & friends e a prodotti commerciali che costruiscono a loro piacimento, o per compiacere quel direttore o quella Galleria, o semplicemente per proporre una loro "scoperta" mutuandola dalla caruccia decorazione all'Arte, per pura autoesaltazione, manco fosse una lotteria.
    E' il risultato dell'egemonia concettuale americana della seconda metà del '900, che se ci ha consegnato molti artisti di talento e di valore ed ha supplito alle lacune europee, ci ha anche costretto a sopportare l'avvento dell'Arte-Supermarket di cui, ripeto, Rabarama ne è un olimpico esempio.
    In media virtus.
    Ciao, Biz.

  • ma siamo daccordo. Ho parlato di una determinata fascia di artisti, non voglio nemmeno pensare a Rabarama...

  • La conoscenza della storia ci può aiutare a sbagliare di meno. Sono per la cancellazione totale della legge truffa prima merce di scambio in seguito. Essendo chiamato a partecipare come commissario o come artista in altri casi non ricordo una volta che sia andata liscia. Pressioni politiche, di strilloni di corte, storici d’arte che di storico e solo la lo dati di nascita, ma tanti tantissimi rappresentanti dell’ignoranza dotta. I risultati si possono notare in Italia ma anche in Europa in parlamento come in publici orinatoi. Per sintetizzare i papi o le famiglie nobili incaricavano persone di loro fiducia per il parco, per gli spazi architettonici e le loro esigenze estetiche funzionali rappresentative, di certo si abbasserebbe la soia del brutto clientelarismo e del funzionale brutto o del bello esteticamente e vuoto di tutto. Potrei andare avanti ma meglio finirla qui.

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