Categorie: Diritto

Una sentenza da storia dell’arte: Andy Warhol non violò il copyright per la serie Prince

di - 3 Luglio 2019
In certi casi, il confine tra la teoria dell’arte e la giurisprudenza è piuttosto labile. Per esempio, se volessimo approfondire la poetica di Andy Warhol, una buona scelta potrebbe essere quella di seguire la causa, iniziata nel 2017, tra la fotografa Lynn Goldsmith e la Andy Warhol Foundation. Infatti, la Corte Federale di New York ha appena decretato che la serie Prince, realizzata nel 1984 da Andy Warhol, non viola il copyright di Goldsmith.
Secondo i documenti del tribunale, il giudice John G. Koeltl ha dichiarato che le opere di Warhol «hanno in qualche modo trasformato la fotografia originale scattata da Goldsmith nel 1981, trasformando Prince in un’icona e aggiungendo qualcosa di nuovo al mondo dell’arte». Chiaro e preciso, da manuale ma la storia, invece, è più complicata perché la questione è più economica che teorica.
Goldsmith sosteneva che il lavoro di Warhol era un’appropriazione di una sua fotografia scattata nel 1981, che doveva servire come materiale di partenza per un’illustrazione per Vanity Fair. Ma oltre al lavoro per Vanity Fair, Warhol produsse altre quindici serigrafie di Prince, dodici delle quali sono state vendute e quattro conservate nell’Andy Warhol Museum.
Dopo la morte di Prince, nel 2016, la Andy Warhol Foundation ha concesso in licenza uno dei ritratti all’editore Condé Nast per la cifra di 10mila dollari, per una copertina dedicata al compianto musicista. Secondo la fotografa, le altre quindici versioni fatte da Warhol, così come la licenza della Fondazione per tutti i sedici ritratti, violavano la legge sul copyright che le conferiva i diritti esclusivi di riprodurre, esibire e distribuire tutte le opere basate sulla fotografia. Per Goldsmith, una decisione a favore della Fondazione avrebbe distrutto il mercato delle licenze dei fotografi, sancendo la liceità dell’appropriazione da parte degli artisti.
D’altra parte, per la Warhol Foundation la serie rientrava nella casistica del fair use, cioè equo utilizzo, una disposizione legislativa dell’ordinamento giuridico degli Stati Uniti d’America che regolamenta, sotto alcune condizioni, la facoltà di utilizzare materiale protetto da copyright per scopi d’informazione, critica o insegnamento, senza chiedere l’autorizzazione scritta a chi detiene i diritti. Molti sono i casi controversi in merito, per esempio, Google Books vs Microsoft e Disney vs Sony. La Fondazione sollecitava la corte a «stare dalla parte giusta della storia» e criticava il tentativo di Goldsmith di «calpestare il Primo Emendamento e di soffocare la creatività artistica».
«Ogni opera della serie Prince è immediatamente riconoscibile come un “Warhol” piuttosto che come una fotografia di Prince, nello stesso modo in cui le famose rappresentazioni di Marilyn Monroe e Mao di Warhol sono riconoscibili proprio come “Warhol”, non come fotografie realistiche di quelle persone», si legge ancora negli atti. La sentenza di lunedì afferma che, considerando tutti i fattori del caso, l’utilizzo delle immagini da parte della Andy Warhol Foundation, che ha anche chiesto il risarcimento del costo della causa, è lecito.
Adesso Goldsmith ha tempo fino al 10 luglio per presentare eventuali ricorsi. «Ovviamente noi e il nostro cliente siamo delusi dall’utilizzo del fair use, che continua gradualmente a erodere i diritti dei fotografi a favore di artisti famosi che appongono i loro nomi a quello che, altrimenti, sarebbe un lavoro derivato del fotografo, rivendicando un uso equo a causa di alcune modifiche estetiche», ha commentato l’avvocato Barry Werbin al New York Times.

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