Vincenzo De Bellis. Ph. Manuela De Leonardis
Sono passati meno di sei mesi dall’annuncio del debutto di Art Basel in Qatar, che ha designato in questo Stato del Golfo la sua quinta sede globale. Dopo Basilea, Miami, Hong Kong e Parigi, il colosso fieristico sbarca quindi sul versante medio orientale, con una prima edizione diffusa che si svolgerà nelle sedi di M7 e del Doha Design District e in vari punti della città, tra il 5 e il 7 febbraio 2026. La direzione, affidata all’artista, regista e curatore egiziano Wael Shawky, si muoverà in questo ambito di profonda trasformazione attraverso una proposta inedita: con il titolo Becoming, la prima Art Basel quatariota non avrà il tradizionale aspetto caratterizzato dai booth fieristici, ma sarà una manifestazione ibrida in cui diversi progetti espositivi si mescoleranno tra loro senza barriere fisiche, mettendo l’opera e la narrazione collettiva in primo piano. Saranno presenti 84 progetti proposti da 87 gallerie provenienti da 31 Paesi differenti, provenienti soprattutto dal mondo arabo. La sfida, quindi, è molteplice: a presentarsi al banco di prova non sono solo la nuova frontiera commerciale e la nuova sede, ma soprattutto un modello curatoriale che ripensa quello fieristico e un ambiente artistico posto per la prima volta sotto i riflettori globali. Di questo approccio e non solo abbiamo parlato con Vincenzo De Bellis, Global Director di Art Basel.
In che modo Becoming, titolo dell’edizione inaugurale di Art Basel Qatar, sarà una riflessione sul tema della meditazione e della trasformazione?
«Il tema nasce da una conversazione, da uno scambio di idee con Wael Shawky, che non è solo un artista: è anche il direttore artistico di Fire Station. È una persona che ha molto a cuore lo sviluppo della regione dal punto di vista delle nuove generazioni di artisti. Ha vissuto per tantissimo tempo all’estero, ora si è trasferito qui. E quindi, riflettendo anche sulla sua posizione di artista, il suo stesso trasformarsi dal punto di vista individuale, così come corpo di una comunità, ha influenzato molto il pensiero. La riflessione sulla transitorietà, su come tutti noi ci muoviamo e anche sulle cose che ci ruotano intorno e a come noi costruiamo quello che ci circonda e che si trasforma è alla base del pensiero di questo progetto. Era necessario un concept che fosse generoso anche dal punto di vista tematico, per avere diversi input da vari luoghi. Infatti, la selezione delle gallerie è stata fatta attraverso un’application e poi, in base al modo in cui queste hanno risposto al tema, sono state scelte considerando anche la qualità delle opere e il bilanciamento geografico».
Come si distingue questa fiera rispetto alle altre della regione?
«Intanto, nel portfolio Art Basel questa fiera per come è concepita è un unicum. La cosa più simile è Unlimited, a Basilea, che è anche una scala: si chiama così perché è pensata per opere di scala “importante” e non domestica. Qui questa limitazione non c’è, ma in modo simile ad Unlimited l’idea è di fare un realizzare su un artista. È l’artista, ancor più della galleria, che conta. Questa è una grande differenza. Art Basel Qatar si distingue anche da tutte le altre fiere della regione, fondamentalmente è l’espansione di uno special sector di una fiera a fiera intera».
Ci sono altri aspetti da tenere in considerazione?
«L’altro aspetto che credo faccia la distinzione è la grande presenza di artisti rappresentati sia da gallerie regionali che da gallerie internazionali. Artisti, quindi, di questa regione che si può chiamare SWANA o MENASA e su cui ci interessa mettere l’accento. Questo perché è una regione del mondo, pur non essendo ovviamente l’unica, che nella narrazione storico-artistica – anche la più contemporanea – non ha trovato tutto questo spazio. Anzi non ce l’ha proprio. E ancora meno ce l’ha nella parte del mercato. Pertanto, questo è un aspetto sul quale vogliamo insistere molto. C’è una narrazione dell’arte, nel mondo, che è molto europea e americana. Insomma, molto occidentale. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’evoluzione di questa narrazione, soprattutto in Asia, ma comunque rimane una parte del mondo ancora da scoprire, ed è giusto che venga scoperta. A non troppa distanza da qui – a qualche centinaio di chilometri – è nata la civiltà della Mesopotamia! Non ci troviamo fisicamente in quella regione, ma culturalmente siamo molto più vicini rispetto di quanto si pensi».
A proposito di storia, gli Stati del Golfo hanno una tradizione scritta che è molto recente. Questo aspetto si ripercuote anche nei musei, che mancano di collezioni consolidate e stratificate rispetto al modello occidentale, a che al contempo sanno reinventare gli spazi e adattare i propri approcci curatoriali secondo modelli inediti. A proposito del rapporto tra Art Basel Qatar e la capitale che la ospita, pensate che sia possibile per la fiera contribuire all’incremento di un patrimonio nazionale attraverso premi e acquisizioni pubbliche?
«In realtà questo processo è iniziato da tempo con Qatar Museums. Noi abbiamo l’ambizione, o forse è meglio dire la speranza, di poter accelerare le cose e soprattutto dare loro visibilità. Però sì, l’idea è quella di sostenere questa dinamica. Ho imparato a conoscere il Paese negli ultimi anni e ciò di cui mi sono reso conto è la grande volontà, percepibile, di costruire un futuro. Una cosa che non riscontro in nessun altro posto al mondo di oggi. Forse sta accadendo quello che succedeva negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso, con l’apertura di tanti musei e lo sviluppo che ne è conseguito?».
A proposito della selezione degli artisti, sono presenti nomi molto noti, tra cui Hassan Sharif, El Anatsui e Etel Adnan con cui hai lavorato in passato. Invece, per quanto riguarda i giovani?
«Ce ne sono molti, ad esempio Iman Issa, Ali Benazir Banisadr, Ahmed Mater ed altri ancora. La lista completa è stata pubblicata. Tra i più giovani c’è anche Sophia Al-Maria, che peraltro è qatarina».
Questi artisti faranno anche dei nuovi progetti?
«Alcuni sono progetti nuovi, altri già esistenti. Abbiamo invitato anche degli artisti a fare dei progetti ex novo, commissioni negli spazi pubblici».
Quante sono le commissioni?
«Per ora sono sei, ma potrebbero diventare cinque, o sette».
Rispetto alle sedi pubbliche, ce ne anticipi qualcuna?
«Sì, ce ne sono due a un minuto e mezzo di distanza tra loro: M7 e Doha Design District».
Spostandoci sul mercato. Pensi che la posizione strategica anche a livello geografico del Qatar, posto tra Oriente e Occidente, possa aiutare a creare nuovi ponti commerciali e persino sbloccare dei mercati che con la pandemia si sono chiusi?
«Sì. La nostra idea è proprio quella di usare questa fiera come un hub, prendendo in considerazione una regione molto vasta».
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