Biennale di Istanbul 2019, prima parte: anteprima da Büyükada

di - 11 Settembre 2019

L’immensità della Capitale turca, la sua sterminatezza, è ben comprensibile se la si osserva dal mare. Alle 9 del mattino, in occasione dell’opening della 16ma Biennale di Istanbul, intitolata “Il settimo continente” e curata dal – possiamo dirlo – mitico Nicolas Bourriaud, una nave-stampa salpa dal molo di Kabataş alla volta dell’isola di Büyükada, la più grande dell’arcipelago delle isole dei Principi, nel Mar di Marmara. Il centro di Istanbul è distante quasi 25 chilometri da Büyükada, un’ora e passa di navigazione ma i grattacieli della parte asiatica della città non accennano a rallentare e fanno da skyline sulla sponda opposta anche da qui.

Büyükada è una delle tre sedi della Biennale di Istanbul 2019, insieme al Pera Museum e alla Mimar Sinan Fine Arts University. Verde e borghese in vaga decadenza, dove non passano auto ma solo carrozze trainate da cavalli, Büyükada ospita quattro sedi con altrettanti lavori site specific o quasi.

“Il Settimo Continente” è il nome che comunemente si affibbia alla tristemente celebre “isola di plastica” che staziona a nord del Pacifico e che occupa una dimensione vasta cinque volte l’area della Turchia. Un subcontinente tra l’emerso e il subacqueo, al cui interno convivono pesci e sacchetti di plastica, detriti del capitalismo e forme di vita.

Prendendo spunto dalla condizione di un ecosistema alterato o, secondo un altro punto di vista, completamente inedito, in cui viventi-non-viventi convivono, il curatore ha immaginato la sua biennale come uno «specchio che riflette un’immagine rovesciata della nostra società. È un nuovo mondo che non vogliamo colonizzare, fatto con quello che abbiamo rigettato. Gli artisti sono i suoi primi esploratori», scrive Bourriaud.

Fa impressione pensare al Settimo Continente da qui, da questa metropoli che, oggi, ci appare modernissima, viva e pulitissima. Eppure, anche la Turchia ha il suo posto tra i Paesi che hanno contribuito allo sviluppo del capitale occidentale, all’aumento della produzione tecnologica e tessile, giusto per fare un paio di esempi, spesso con sfruttamento di manodopera minorile e siriana.

A Büyükada, però, gli artisti invitati e le opere presentate mantengono un livello più poetico, se si esclude la lunga e laboriosa ricerca di Armin Linke sullo stato geopolitico degli oceani, presentata anche a Venezia alla Palazzina Canonica a maggio dello scorso anno e realizzata in collaborazione con il CNR-ISMAR che qui è arricchita, per l’occasione, da una serie di documenti e indagini riguardanti l’area del Bosforo, tra storia e attualità (sede: Anadolu Kulübü).

Le “cellule abitative” che occupano lo stesso spazio di loculi cimiteriali di Andrea Zittel ci accolgono come una grande scultura orizzontale nel piazzale del porto di Büyükada, riflessione sullo spazio pubblico, il suo utilizzo, la sua dimensione e percezione.

In un vecchio e splendido edificio (Hacopoulo Köşkü) appartenuto al governo turco fino a un paio d’anni fa (che cosa ne faranno in futuro, attualmente, non è dato saperlo) ci accolgono invece le sculture ibride di Monster Chetwynd: fanno capolino sul patio e, per poter leggere la didascalia che accompagna l’opera, dobbiamo destreggiarci tra figure femminili dal corpo di ragno o dalla coda di serpente, tra una sorta di vampiro e un essere dalla doppia testa. Una piccola casa degli orrori e dei misteri al limite del ludico. Oppure dell’idea che la civiltà della plastica ha solamente iniziato a dimostrare i suoi effetti.

Più convincente, invece, la coppia di video dell’artista americano Glenn Ligon, creati apposta per la Biennale di Istanbul e ospitati al Mizzi Köşkü. Sono entrambi intitolati Taksim, perché girati proprio nell’omonima piazza-simbolo di Istanbul. Mentre nel primo la velocità della camera nel seguire selfie, pose e atteggiamenti dei turisti è sincopata, alla costante ricerca di un punto d’appiglio che difficilmente si può trovare in un luogo babelico come la “piazza dei taxi”, nel secondo le scene che si susseguono sono quasi a rallentatore e indugiano sui nuovi comportamenti, nuovi movimenti e nuove de-formazioni umane. La causa? Provate a indovinare…lo smartphone!

Tra sguardi persi di genitori sul proprio schermo, rituali di coppia nello scambio del proprio dispositivo, corpi “statuificati” al centro dell’area e intenti a scorrere il monitor, pratiche di selfie e tasche deformate dal telefono, Glenn Ligon ci ipnotizza sui movimenti della contemporaneità e del turismo di massa, accompagnati dalle splendide musiche che virano dalle tradizionali melodie turche alla tromba e al sax in versione jazz di Don Cherry e Tyshaw Sorey.

Dulcis in fundo, al Taş Mektep, c’è l’artista turca Hale Tenger (1960) che ha concepito un’installazione site specific nel cortile di questo palazzo diroccato e avvolto dall’edera, in uno scenario che solo il vicino oriente può evocare.

L’intervento si chiama Appearance e attraverso una serie di dischi in ossidiana nera che riflettono la natura intorno e una voce in sottofondo che recita un brano scritto dall’artista, il cui tema è la resilienza e la resistenza della natura alle prese con quello che è il metodo agronomico del “girdling”, ovvero la rimozione della corteccia di una pianta fino a raggiungere l’area del tronco vascolarizzato, con la finalità di limitare le capacità di sviluppo e riproduzione dell’albero, portandolo a una lenta morte, almeno nell’area interessata. Una coercizione sussurrata e un po’ da brividi, che in pochi addetti ai lavori restano ad ascoltare, presi dalla lucentezza specchiante dell’ossidiana, perfetto strumento per selfie oscuri.

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