Categorie: fiere e mercato

fiere_opinioni | Verona al bivio

di - 30 Ottobre 2008
Il posto a cui mira ArtVerona è il terzo per importanza, terza piazza del podio fieristico italiano come terza via per il mercato. L’unica plausibile, da contendersi con MiArt, dando per scontata l’inattaccabilità di ArtFirst Bologna, per la sua tradizione, e Artissima di Torino, per il suo ruolo strategico.
Fin dall’inizio, gli organizzatori si sono mossi con grande cautela ma anche con intelligenza. Per esempio, non scendendo nel campo della concorrenza diretta ma inventandosi una formula originale e controcorrente: la moda voleva l’internazionalità a ogni costo? Verona ha risposto aprendo un focus sul mercato italiano, ipotizzando un sistema alternativo, scommettendo sugli operatori, sull’arte e sugli artisti nazionali in prima battuta, mirando a intercettare un collezionismo potenziale alla ricerca di punti di riferimento.
Ora, il disegno di ArtVerona è ben lungi dal compiersi, però comincia almeno ad assumere una certa forma. La forza della fiera scaligera sta nella consapevolezza dei propri limiti, che la stimola a rimettersi continuamente in gioco, a ripensarsi, a fare autocritica, a inventarsi strade nuove.

Sono ben nove i progetti a latere quest’anno, si va dalle installazioni di grande formato (Slam) al piccolo sguardo verso l’Est Europa (D’Est), dal percorso nella fotografia (PhotoArtVerona) a quello nel video (VideoArtVerona), fino alle installazioni site specific (045 Open Space). E poi premi (Aletti, Icona), incontri e presentazioni (Forum 08). Non specchietti per le allodole ma progetti pensati da specialisti autorevoli come Fabio Cavallucci, Gabi Scardi, Maria Rosa Sossai, Renato Barilli, Mario Gorni, Roberta Valtorta, Steve Piccolo; non solo eventi che riempiono la fiera ma propaggini che si insinuano in città, a Castelvecchio e agli Scavi Scaligeri, per una kermesse che tende a uscire fuori di sé, facendosi da tramite per collaborazioni con il Ministero della Cultura Sloveno, con il Museo di Fotografia di Cinisello Balsamo, con il Conservatorio e l’Accademia veronesi, con Careof/Docva di Milano, con l’Università di Bologna.
La fiera di Verona è riuscita persino nell’intento di dare lo start al progetto regionale del deposito legale di materiali video alla Biblioteca Civica, con la costituzione di un primo fondo di videoarte, presto reso ad accesso pubblico per studio e consultazione. Fiera come evento di mercato che si coniuga in evento culturale e riesce a innescare sinergie virtuose tra pubblico e privato: questa sembra essere un primo, importante traguardo raggiunto.

Cosa manca ancora per compiere l’impresa, per conquistare il famoso terzo gradino del podio? Manca il coraggio del ritorno sui propri passi. Dopo le prime edizioni del “tuttidentro”, della politica inclusiva per acquisire consensi di operatori e pubblico, è giunto il tempo di ritirare le reti. Non un pentimento ma un’esigenza per qualificare il progetto. 170 gallerie quest’anno? Una sola constatazione: con due terzi di quelle, la fiera sarebbe stata migliore, con un terzo avrebbe raggiunto l’eccellenza. “Via i mercanti dal tempio”, dunque, è uno slogan che va spiegato: premesso che ricerca può essere fatta sia operando nel mercato primario come nel mercato secondario, la selezione degli operatori dovrebbe puntare ai professionisti che svolgono una seria funzione culturale nell’ambito del mercato, che lavorano professionalmente al consolidamento e valorizzazione dell’opera degli artisti che trattano, che sviluppano canali per instaurare collaborazioni con il settore pubblico, che garantiscono l’archiviazione, la pubblicazione dei lavori, il loro controllo e certificazione, che fanno crescere e fidelizzano un collezionismo di qualità.
Ne verrebbe fuori una fiera esclusiva e compatta, iperselezionata magari, dove presentare solo il meglio del meglio, dove cedere forse qualcosa al contemporaneo modaiolo per restituire al collezionismo vecchi e nuovi punti di riferimento che hanno fatto e fanno la storia della ricerca nel campo delle arti visive del nostro Paese. Al motto “non solo Poverismo”, ArtVerona può tentare la via di riallacciare i fili pendenti, rimasti tali a causa dello scarso appeal internazionale della nostra arte, tagliati dalle logiche di un mercato anglocentrico.

Sarebbe interessante tracciare oggi un profilo del collezionista medio italiano: probabilmente ne uscirebbe il ritratto di una figura altamente informata sulle vicende di Damien Hirst e Charles Saatchi, capace di sciorinare i nomi degli ultimi top player cinesi o indiani. Ma che probabilmente cadrebbe dalle nuvole sentendo citare Fronte Nuovo e Gruppo degli Otto, M.A.C., Origine, Forma Uno, Poesia Visiva, Gruppo N, Scuola di San Lorenzo, il gruppo della Brown Boveri e di via Lazzaro Palazzi, i Nuovi-Nuovi e via discorrendo, per non dire della sperimentazione con la fotografia degli anni ’70, insomma la storia delle arti visive del Novecento italiano. Tutta roba che andrebbe ripresa, ristudiata, ricontestualizzata nelle dinamiche culturali europee e mondiali, sottratta alle logiche dei mercati locali e provinciali, restituita alle politiche museali e alle collezioni pubbliche private, possibilmente esportata nei casi di eccellenza.
Un aspetto interessante della cultura italiana del Novecento è stata ad esempio la capacità di declinare le principali linee di ricerca condivise a livello mondiale in strumenti per interpretare la dialettica socio-politica di questi anni, facendosi interprete del dibattito reale della società: lo hanno fatto i futuristi e i novecentisti, lo hanno fatto i postcubisti e i concettualisti, lo hanno fatto i poveristi e gli artisti pop. Persino l’indole apolitica della Transavanguardia ha avuto un ruolo sostanziale nella rappresentazione della “reversione” indotta dal Postmodernismo.

Una centralità che spesso non viene sufficientemente riconosciuta in casa, figuriamoci fuori, relegandoci a una marginalità immeritata. E che alla fine legittima persino azioni come lo scippo del Futurismo in atto presso il Centre Pompidou nel contesto delle celebrazioni del centenario del Manifesto. Uno scippo che riscrive la storia dell’origine italiana di un movimento, rendendolo orfano e transnazionale. Vincenzo Trione, sul “Corriere della Sera”, ha di recente messo lucidamente sulla bilancia meriti e difetti dell’operazione revisionista e globalizzante di Didier Ottinger. Il quale però, inutile negarlo, altro non ha fatto che utilizzare un approccio critico neppure nuovo (basterebbe citare la mostra del 2003 di Renato Barilli a Brescia, Impressionisti italiani, che muoveva da una posizione teorica esattamente identica) per spostare in modo determinante l’asse della storia da un lato all’altro delle Alpi.

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