Si è aperta ieri Art | 34 | Basel la più grande fiera d’arte contemporanea del mondo. Se alla Biennale di Venezia si paventava la dittatura dello spettatore, a Basilea si verifica ogni anno quello la “dittatura del consumatore”. In un certo senso l’intenzione del lettore dell’arte si manifesta come la possibilità di avvicinarsi al possesso o allo sfruttamento economico dell’opera d’arte. Nell’approssimarsi ad uno status di comunicazione privata con l’opera e di ingresso pubblico nel collezionismo, lo spettatore si riconosce consumatore. La fiera di Basilea, alla sua trentaquattresima edizione, resta il luogo delle scoperte e delle anticipazioni ancor più della Biennale che è schiava delle grandi gallerie, dell’editoria e, appunto, del pubblico. Questa caratteristica proiettiva fa della kermesse elvetica il luogo della condizione futura dell’arte in un dialogo serrato con il passato.
Dai Picasso presenti in fiera, infatti, si arriva alle mostre personali di giovani artisti nella sezione Art Statements ed alle monumentali installazioni che occupano l’edificio di Art
La Biennale ha aperto i battenti in una condizione di disagio lamentata o quasi ignorata, sicuramente impressa nella memoria dei presenti, Art 34 Basel, invece, inaugura in uno stato di grazia e una fresca e dinamica sfacciataggine della fiera ha saputo distribuire su due continenti il proprio modello aprendo una succursale a Miami sempre attenta a selezionare gallerie ed opere da esporre. Basilea, a differenza della Biennale, vive sulla sincerità della sua istituzione, è un mercato sì, ma è uguale a se stesso non è certo la versione italiana di Documenta (come è invece l’Arsenale) tanto meno la sposa con cui tutti vogliono andare al letto. Basilea è il centro del mercato dell’arte e della cinica determinante politica di raccordo tra continenti diversi, senza patetici cappelli intellettuali pronti a legittimare tesi sulla coscienza (e sull’incoscienza) globale. L’ipocrisia a Art Basel sembra rimanere fuori e le 270 gallerie ammesse dall’art commitee sono pronte a far girare milioni di franchi svizzeri e non a convincerci dell’esistenza di chissà quali Utopie postmoderne.
Così la Biennale finisce con l’essere una specie di Festival di Sanremo, che tutti criticano e tutti guardano, mentre Basel è considerata, in un certo senso, una austera e fredda realtà fatta di soldi e trattative, poco importa se queste si facciano o meno intorno a stupende opere d’arte. L’artista indebolito dalla foga ermeneutica e
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“un’operazione commerciale può trasformarsi in un dato di fatto culturale, cosa che solitamente vediamo invertita quando leggiamo riviste e giornali d’arte contemporanea.”
Parole sante, come quelle del buon Enrico Baj che a proposito della biennale scorsa ebbe a dire:
“Ormai di biennali se ne fanno dappertutto, ma quella veneziana fu la prima nel 1895, e rimane il principale punto di riferimento per la sua schifezza. [...] in quell’acqua fetida, in quei canti napoletani di gondolieri per turisti, in quegli alberghi tra i più cari al mondo, in quella Biennale, infine, metafora di ogni pochezza, esteriorità, banalità, spreco e devastazione mentale”
(pace all’anima sua)