«Sulla costa dellâOregon vi era unâarea in cui le dune di sabbia attraversavano la 1-US Highway, bloccando spesso la carreggiata. CosĂŹ il servizio forestale ha installato una stazione laggiĂč per determinare come potevano controllare il flusso di queste dune di sabbia. E ne sono rimasto affascinato». Cosi Frank Herbert, creatore della saga âIl ciclo di Duneâ, spiegava come era arrivato a immaginare un mondo senza acqua e totalmente ricoperto dalla sabbia. Oltre che ispirandosi a una societĂ , quella americana degli anni â60, attraversata da grandi tensioni geopolitiche, dalla rabbia giovane del sex drugs and rock nâ roll e scossa da sconosciute inquietudini individuali ed esistenziali. CosĂŹ il silenzio del deserto di Arrakis-Dune, doloroso e spietato, diviene il setaccio attraverso cui estrarre le pietre preziose di quel flusso antico, perenne e instancabile delle vicende umane. E dopo 50 anni, il regista canadese Denis Villeneuve con âDune: Part Oneâ, opera cinematografica volitiva e incompleta, suggestiva e asfissiante, ha sentito il bisogno di riattraversare quel mare danzante di sabbia, di riaprire quelle angosciose questioni, ancora pulsanti e irrisolte, di una delle opere di fantascienza (âphilosophical fictionâ per lâautore) piĂč complesse e riuscite del â900.
PiĂč che una space opera, Ăš unâ opera totale, che affronta un universo aristotelicamente ordito, con un centro immobile decisore, lâImpero, i cieli in movimento della Gilda dei mercanti che organizzano lo spazio/tempo, il mondo sublunare di Arrakis-Dune, dalle âtempeste di sabbia che attraversano il metalloâ, e che contiene nel suo grembo sabbioso la spezia Melange, una sostanza psicoattiva che potenzia il corpo e la percezione, permette di annullare ogni distanza e, per questo, strumento indispensabile per il controllo tecnico e filosofico della Galassia.
Un apparente avvicendamento di routine nella gestione del ricchissimo pianeta tra le casate di Atreides e gli orribili Harkonnen deciso dallâImperatore re Shaddam IV, si trasforma in una feroce resa dei conti, in cui verranno coinvolte tutte le forza in campo. Tra cui i Fremen, il âpotere del desertoâ come li definisce Duncan Idaho, Maestro di Spada del suo Duca, Leto Atreides. Gli unici capaci di abitare lontani dalle monumentali cittĂ -ziggurat di Arrakis, in grado di attraversare le distese di sabbia infestate dai Shai-Hulud (la âcosa eternaâ in arabo), enormi vermi che arrivano a 400 metri e in grado di inghiottire qualunque artefatto, mezzo o struttura umana poggiata sulle sabbie.
La fuga di Paul Atreides, figlio del Duca Leto dalla cittĂ di Arrakens sotto attacco dei soldati Harkonnen e i Sardaukar, mercenari imperiali, darĂ vita a un viaggio profondo e doloroso, una âtraversata del desertoâ che dopo secoli ancora lambisce quel bisogno di ritrovare la propria âvoceâ, la propria anima tra rocce, sabbia e sofferenza delle carni. Con lui la madre, Lady Jessica, della sorellanza esoterica Bene Gesserit, dedite al controllo telepatico della mente e invischiata in un progetto di eugenetica religiosa, secondo cui il figlio rappresenterebbe il Kwisatz Haderach, âsalto nel camminoâ dallâebraico arcaico, un individuo in grado di riscoprire la âcompleta memoria genetica di tutti i suoi antenatiâ.
LâArabo, lâebraico, Edipo, Shakespeare, Sofocle, Lawrence dâ Arabia, GesĂč, il petrolio, la guerra, la tecnologia militare ed estrattiva, i popoli del nord âbrutali e sfruttatoriâ, i popoli del deserto âpericolosi e inaffidabiliâ. E poi la spezia e il verme, la Grazia e il Serpente, la clava e la âferaâ. Rimane impressionante la mole di archetipi, storie, atmosfere e figure che Herbert ha sotterrato sotto la sabbia di Dune. Siamo nei pressi di quella fantascienza pura, che Ăš in fondo pura filosofia, antropologia radicale. Nei pressi di quel doloroso triangolo di essenze con cui lâuomo deve ogni volta misurarsi: con la Tecnologia (â2001: A Space Odisseyâ), con lâAltro (âBlade Runnerâ), con la Natura (âDuneâ) e da cui ne esce ogni volta deturpato, devastato ma incredibilmente piĂč potente e consapevole.
«Nel mio romanzo volevo che lâuomo si sentisse sul proprio pianeta indesiderato, minacciato, come una preda. Come noi stiamo minacciando la Terra». CosĂŹ Herbert, nel â65, ci catapulta accanto a Paul, donandoci unâesperienza altra per qualunque individuo nato al di sopra del tropico del Cancro. Una condizione dellâesistenza in cui, come avviene tra le tribĂč arabe, tra Navajo e Black Foot del Kalahari, ogni passo, ogni secondo, ogni goccia di liquido puĂČ determinare un destino, dove ogni minima deviazione, squilibrio, ogni appetito o azione non necessari, divengono minaccia per sĂ© e per chi Ăš al nostro fianco. Allo stesso modo, quella paura, quel terrore atavico dei nostri antenati, determina lâoblio totale di ogni remoto futuro e passato, traendoci al momento assoluto, allâistante perfetto e infinito in cui i martellatori distraggono il Verme, la âBestia Archetipicaâ, il âToro dellâArenaâ, per regalarci quei pochi istanti utili per sopravvivere.
Ma mentre Herbert ha mostrato la sete in tutte le sue declinazioni, dellâacqua, di vita come di spezia, del potere che corrompe e mostrifica ogni strato dellâuniverso, rendendone ogni soggetto, dallâimperatore alle gilde, dai casati alle sorellanze, parte di un enorme meccano che si auto-alimenta mangiando se stesso, Villeneuve sceglie unâaltra chiave di lettura, depotenziando il tragico, il collettivo, e spingendo al limite la visione di un altro strato, ugualmente incandescente e instabile. Quella dello sguardo di un Paul, della sua dolorosa e strisciante maturazione umana, âragazzino sperduto, nascosto in un sotterraneoâ, costretto a trasformarsi in uomo in poche ore e in un mondo in fiamme.
Grazie a un comparto tecnico dâeccellenza (Paul Lambert agli effetti speciali, âBlade Runner 2049â e âFirst Manâ, fotografia di Greig Fraser, âZero Dark Thirtyâ e âThe Batmanâ 2022, sound score di Hans Zimmer, âInterestellarâ, âInceptionâ, âDunkirkâ) il regista canadese gli ha costruito intorno una texture dimensionale cedevole, tra la sabbia di Arrakis, lâacqua di Caledan e il liquido sieroso scuro di Giedi Prime (pianeta natale degli Harkonnen), un universo di perfezione formale, solido e liquido. Le grigie giubbe militari, gli oscuri interni piramidali dei palazzi di Arraken, le silenziose astronavi euclidee, le glaciali esplosioni che illuminano la notte della capitale, lâincedere granuloso del sound design, che scorre libero e avvolgente come in una clessidra.
Tutto procede con elegante e fredda delicatezza per far risaltare il nucleo infuocato di Paul. Distratto, svagato per il Duca padre, non pronto per le Bene Gesserit, per coloro che âpreparanoâ il terreno, travolto dai flash-back, il suo sguardo adolescente, smunto, impaurito eppure con la âsfida negli occhiâ, si obnubila nel momento centrale del film, nellâistante in cui si incrociano tutte le linee della narrazione e dei nostri immaginari.
Lâenorme Shai-Hulud che arriva smuovendo il mare di sabbia e il suo sguardo che si perde tra le mietitrici, gli ornitotteri, le Ale di salvataggio, prodotti dello strapotere tecnologico umano ma ciechi dinanzi al senso recondito che Paul sta ormai avvertendo. Una completezza che solo il deserto e i suoi enormi Cerberi interiori (âJupiter and Beyondâ, âtears in the rainâ, âIâm gonna wake up back in the Jungleâ) possono donare. Ă il messaggio di Villeneuve, che chiama quegli abbozzi di uomini e donne quali sono gli adolescenti, che hanno nel sangue blu potenziato della gioventĂč, tutta la volontĂ e la nuova sapienza. Sono loro e solo loro che possono tirarci fuori da queste orribili sabbie mobili dellâesistenza.
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