14 ottobre 2021

Con il suo nuovo Dune, Denis Villeneuve ci porta nel deserto dell’Occidente

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Il regista canadese Denis Villeneuve reinterpreta il grande classico di fantascienza di Frank Herbert con una eleganza tanto fredda quanto attuale, tra ecologia, potere e introspezione

«Sulla costa dell’Oregon vi era un’area in cui le dune di sabbia attraversavano la 1-US Highway, bloccando spesso la carreggiata. Così il servizio forestale ha installato una stazione laggiù per determinare come potevano controllare il flusso di queste dune di sabbia. E ne sono rimasto affascinato». Cosi Frank Herbert, creatore della saga “Il ciclo di Dune”, spiegava come era arrivato a immaginare un mondo senza acqua e totalmente ricoperto dalla sabbia. Oltre che ispirandosi a una società, quella americana degli anni ‘60, attraversata da grandi tensioni geopolitiche, dalla rabbia giovane del sex drugs and rock n’ roll e scossa da sconosciute inquietudini individuali ed esistenziali. Così il silenzio del deserto di Arrakis-Dune, doloroso e spietato, diviene il setaccio attraverso cui estrarre le pietre preziose di quel flusso antico, perenne e instancabile delle vicende umane. E dopo 50 anni, il regista canadese Denis Villeneuve con “Dune: Part One”, opera cinematografica volitiva e incompleta, suggestiva e asfissiante, ha sentito il bisogno di riattraversare quel mare danzante di sabbia, di riaprire quelle angosciose questioni, ancora pulsanti e irrisolte, di una delle opere di fantascienza (“philosophical fiction” per l’autore) più complesse e riuscite del ‘900.

dune denis villeneuve

Lo sviluppo della trama

Più che una space opera, è un’ opera totale, che affronta un universo aristotelicamente ordito, con un centro immobile decisore, l’Impero, i cieli in movimento della Gilda dei mercanti che organizzano lo spazio/tempo, il mondo sublunare di Arrakis-Dune, dalle “tempeste di sabbia che attraversano il metallo”, e che contiene nel suo grembo sabbioso la spezia Melange, una sostanza psicoattiva che potenzia il corpo e la percezione,  permette di annullare ogni distanza e, per questo, strumento indispensabile per il controllo tecnico e filosofico della Galassia.

Un apparente avvicendamento di routine nella gestione del ricchissimo pianeta tra le casate di Atreides e gli orribili Harkonnen deciso dall’Imperatore re Shaddam IV, si trasforma in una feroce resa dei conti, in cui verranno coinvolte tutte le forza in campo. Tra cui i Fremen, il “potere del deserto” come li definisce Duncan Idaho, Maestro di Spada del suo Duca, Leto Atreides. Gli unici capaci di abitare lontani dalle monumentali città-ziggurat di Arrakis, in grado di attraversare le distese di sabbia infestate dai Shai-Hulud (la “cosa eterna” in arabo), enormi vermi che arrivano a 400 metri e in grado di inghiottire qualunque artefatto, mezzo o struttura umana poggiata sulle sabbie.

La fuga di Paul Atreides, figlio del Duca Leto dalla città di Arrakens sotto attacco dei soldati Harkonnen e i Sardaukar, mercenari imperiali, darà vita a un viaggio profondo e doloroso, una “traversata del deserto” che dopo secoli ancora lambisce quel bisogno di ritrovare la propria “voce”, la propria anima tra rocce, sabbia e sofferenza delle carni. Con lui la madre, Lady Jessica, della sorellanza esoterica Bene Gesserit, dedite al controllo telepatico della mente e invischiata in un progetto di eugenetica religiosa, secondo cui il figlio rappresenterebbe il Kwisatz Haderach, “salto nel cammino” dall’ebraico arcaico, un individuo in grado di riscoprire la “completa memoria genetica di tutti i suoi antenati”.

Fantascienza archetipica

L’Arabo, l’ebraico, Edipo, Shakespeare, Sofocle, Lawrence d’ Arabia, Gesù, il petrolio, la guerra, la tecnologia militare ed estrattiva, i popoli del nord “brutali e sfruttatori”, i popoli del deserto “pericolosi e inaffidabili”. E poi la spezia e il verme, la Grazia e il Serpente, la clava e la “fera”. Rimane impressionante la mole di archetipi, storie, atmosfere e figure che Herbert ha sotterrato sotto la sabbia di Dune. Siamo nei pressi di quella fantascienza pura, che è in fondo pura filosofia, antropologia radicale. Nei pressi di quel doloroso triangolo di essenze con cui l’uomo deve ogni volta misurarsi: con la Tecnologia (“2001: A Space Odissey”), con l’Altro (“Blade Runner”), con la Natura (“Dune”) e da cui ne esce ogni volta deturpato, devastato ma incredibilmente più potente e consapevole.

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«Nel mio romanzo volevo che l’uomo si sentisse sul proprio pianeta indesiderato, minacciato, come una preda. Come noi stiamo minacciando la Terra». Così Herbert, nel ’65, ci catapulta accanto a Paul, donandoci un’esperienza altra per qualunque individuo nato al di sopra del tropico del Cancro. Una condizione dell’esistenza in cui, come avviene tra le tribù arabe, tra Navajo e Black Foot del Kalahari, ogni passo, ogni secondo, ogni goccia di liquido può determinare un destino, dove ogni minima deviazione, squilibrio, ogni appetito o azione non necessari, divengono minaccia per sé e per chi è al nostro fianco. Allo stesso modo, quella paura, quel terrore atavico dei nostri antenati, determina l’oblio totale di ogni remoto futuro e passato, traendoci al momento assoluto, all’istante perfetto e infinito in cui i martellatori distraggono il Verme, la “Bestia Archetipica”, il “Toro dell’Arena”, per regalarci quei pochi istanti utili per sopravvivere.

Ma mentre Herbert ha mostrato la sete in tutte le sue declinazioni, dell’acqua, di vita come di spezia, del potere che corrompe e mostrifica ogni strato dell’universo, rendendone ogni soggetto, dall’imperatore alle gilde, dai casati alle sorellanze, parte di un enorme meccano che si auto-alimenta mangiando se stesso, Villeneuve sceglie un’altra chiave di lettura, depotenziando il tragico, il collettivo, e spingendo al limite la visione di un altro strato, ugualmente incandescente e instabile. Quella dello sguardo di un Paul, della sua dolorosa e strisciante maturazione umana, “ragazzino sperduto, nascosto in un sotterraneo”, costretto a trasformarsi in uomo in poche ore e in un mondo in fiamme.

 

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La fredda eleganza delle dune di Denis Villeneuve

Grazie a un comparto tecnico d’eccellenza (Paul Lambert agli effetti speciali, “Blade Runner 2049” e “First Man”, fotografia di Greig Fraser, “Zero Dark Thirty” e “The Batman” 2022, sound score di Hans Zimmer, “Interestellar”, “Inception”, “Dunkirk”) il regista canadese gli ha costruito intorno una texture dimensionale cedevole, tra la sabbia di Arrakis, l’acqua di Caledan e il liquido sieroso scuro di Giedi Prime (pianeta natale degli Harkonnen), un universo di perfezione formale, solido e liquido. Le grigie giubbe militari, gli oscuri interni piramidali dei palazzi di Arraken, le silenziose astronavi euclidee, le glaciali esplosioni che illuminano la notte della capitale, l’incedere granuloso del sound design, che scorre libero e avvolgente come in una clessidra.

Tutto procede con elegante e fredda delicatezza per far risaltare il nucleo infuocato di Paul. Distratto, svagato per il Duca padre, non pronto per le Bene Gesserit, per coloro che “preparano” il terreno, travolto dai flash-back, il suo sguardo adolescente, smunto, impaurito eppure con la “sfida negli occhi”, si obnubila nel momento centrale del film, nell’istante in cui si incrociano tutte le linee della narrazione e dei nostri immaginari.

L’enorme Shai-Hulud che arriva smuovendo il mare di sabbia e il suo sguardo che si perde tra le mietitrici, gli ornitotteri, le Ale di salvataggio, prodotti dello strapotere tecnologico umano ma ciechi dinanzi al senso recondito che Paul sta ormai avvertendo. Una completezza che solo il deserto e i suoi enormi Cerberi interiori (“Jupiter and Beyond”, “tears in the rain”, “I’m gonna wake up back in the Jungle”) possono donare. È il messaggio di Villeneuve, che chiama quegli abbozzi di uomini e donne quali sono gli adolescenti, che hanno nel sangue blu potenziato della gioventù, tutta la volontà e la nuova sapienza. Sono loro e solo loro che possono tirarci fuori da queste orribili sabbie mobili dell’esistenza.

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