fotografia | Geografie culturali

di - 6 Marzo 2006

Che storicamente ci sia stata una predominanza maschile nell’espressione artistica è quanto di più scontato si possa affermare. Anche se forse in fotografia il gap tra fotografi e fotografe è meno profondo, perché si tratta di un mezzo più giovane che, perciò, ha visto sin dall’inizio l’affermarsi di donne, il cui valore si sta scoprendo soltanto negli ultimi anni. E, forse per questo, anche il tema della rappresentazione della donna in fotografia è diverso rispetto a quello nelle altre arti, proprio in virtù del contributo dato dalle donne stesse, che hanno proposto rappresentazioni più complesse, nelle quali si trovano intrecciate tematiche ampie affrontate secondo interpretazioni mai semplicistiche.
Si pensi, per esempio, a Shirin Neshat (Qazvin, Iran, 1957, vive a Qazvin e New York), una delle prime artiste provenienti dal mondo arabo ad imporsi all’attenzione internazionale. La sua attività è cominciata nel 1993; si è trasferita da tempo a New York ma, dopo la rivoluzione khomeinista in Iran, sente l’esigenza di riavvicinarsi al suo paese natale e di raccontare quello che sta succedendo. Il suo primo lavoro è fotografico e viene sviluppato per quattro anni (dal 1993 al 1997), si intitola Unveiled o Women of Allah ed è costituito da raffinate immagini in bianco e nero di donne islamiche coperte da pesanti chador neri. Sono immagini dal forte potere iconico e simbolico: appaiono visi, mani, e piedi istoriati con la scrittura calligrafica persiana e, spesso, giustapposti ad armi. La Neshat cerca di rappresentare le donne islamiche secondo un’immagine diversa da quella stereotipata occidentale: le sue donne non sono affatto immobili e passive, ma resistono e protestano. E il velo è una faccenda complicata: rappresenta la volontà dell’uomo di controllare la donna, ma anche la possibilità per quest’ultima di essere rispettata e di non lasciarsi attrarre da eccessive occidentalizzazioni culturali. La serie fotografica fa il giro del mondo e porta alla Neshat un’inaspettata notorietà. Così nel 1997, per esprimersi in modo più completo, decide di passare alle video-installazioni: inizia a collaborare con persone che provengono da settori diversi (cantanti, compositori, cineasti), dipana le sue storie su più schermi (nel primo progetto importante The Shadow Under the Web, che viene realizzato per la Biennale di Istanbul, proietta simultaneamente su quattro schermi l’immagine di una donna che corre senza meta) e mette a punto una filosofia degli opposti (uomo/donna, bianco/nero, telecamera fissa/telecamera rotante, occidente/oriente, pubblico/privato), che rappresenta il modo rigido in cui l’occhio occidentale pensa le società islamiche. Visione che lei, invece, cerca di spezzare e di rendere problematica.
Con le video-installazioni affronta il tema della relazione fra i sessi (Turbulent nel 1999 viene premiato con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia), racconta di una donna la cui pazzia le consente di abbandonare codici sociali e religiosi, rende pubblico per la prima volta lo spazio privato di una donna musulmana. Ma i lavori di Shirin Neshat non vengono proiettati in Iran e anche in Occidente risultano destabilizzanti, perché riescono ad andare oltre la superficie delle cose, rifuggono da risposte ovvie per raccontare, invece, ambiguità e contraddizioni la cui valenza è indubbiamente transculturale, proprio come l’artista di riferimento.
Un altro caso interessante, ma molto differente, è rappresentato da Cindy Sherman (Glenn Ridge, New Jersey, 1954, vive a New York) che per tutta la carriera fotografica ha sempre ripreso sè stessa, ad eccezione di una significativa parentesi negli anni Novanta, durante i quali si è avvalsa di bambole e manichini di plastica come suoi alter ego artificiali quali espressione della nuova sessualità inorganica. Il suo primo ciclo di lavori si intitola Untitled Film Stills(1977-1980) e consiste in una sessantina di fotografie in bianco e nero nelle quali la Sherman compare come protagonista di B movies degli anni Cinquanta-Sessanta. Qualche volta introduce anche una componente voyeuristica attraverso l’utilizzo di trucchi, quali la grana fotografica grossa o inquadrature defilate, che situano l’osservatore al di fuori dell’inquadratura come fosse un intruso. Più tardi (dal 1980) la fotografa svilupperà ulteriormente il tema dei Film Stillsnelle Backscreen Projections, immagini nelle quali si farà riprendere davanti a proiezioni di fondali analoghi a quelli che venivano usati nei vecchi film.

Nella creazione di queste immagini la Sherman non si è ispirata a precisi film; ha, piuttosto, preso in considerazione l’immaginario cinematografico degli anni Cinquanta e Sessanta nel suo complesso, estrapolandone vari stereotipi nella rappresentazione delle atmosfere e delle eroine; poi, li ha ricreati con una credibilità tale che qualcuno si è arrischiato nell’individuazione dei titoli dei film, ovviamente fallendo nell’intento. Questo inganno rende evidente quanto siano forti certi stereotipi culturali e come possano aver condizionato le donne, costringendole a interpretare ruoli predefiniti e rigidi. Le fotografie della Sherman hanno messo in crisi persino le femministe: le sue immagini criticano certi comportamenti maschilisti o piuttosto li riaffermano? Eppure, in tutto il suo lavoro la Sherman ha sempre rimesso in discussione l’utilizzo della donna come feticcio erotico, ma ha scelto di farlo nei luoghi più responsabili della creazione di stereotipi. Ha creato parodie delle foto di pin-up o campagne pubblicitarie decisamente alternative per stilisti come Jean-Paul Gautier e Comme de Garcon. Col tempo, però, i suoi lavori sono diventati sempre più inquietanti e più inclini all’estetica del brutto tramite l’utilizzo anche di rifiuti, cibo avariato, scorie e pezzi di corpo umano. Nei Ritratti storici (1988-1990) la Sherman si è calata nei panni di soggetti di importanti dipinti di Raffaello, Ingres, David ma, anziché assomigliare all’originale, indossa delle protesi (grembi da donna incinta, seni di ogni forma e dimensione) che la deturpano al limite del mostruoso. Il trasformismo di Cindy Sherman è sorprendente: in una serie impersona donne medie americane, che cercano di nascondere l’età truccandosi e pettinandosi in modo eccessivo; in un’altra, realizzata dopo l’11 settembre, si traveste da clown che lei stessa ha definito: “Pagliacci istericamente felici, perciò ambigui e talvolta minacciosi che sono un simbolo della schizofrenia e delle paure della società occidentale”. La Sherman ama provocare, persino nell’approccio al mezzo fotografico, come si evince dalla scelta di intitolare quasi tutte le sue opere Untitled e di assegnare a ciascuna di esse un numero progressivo. Dimostrando di ripudiare la purezza del significato e le interpretazioni a senso unico.

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