fotografia_personaggi | Il detonatore dell’immaginazione letteraria

di - 21 Maggio 2010
In una recente mostra milanese
abbiamo avuto la fortuna di osservare una cospicua selezione di documenti, per
lo più inediti, estratti dall’archivio di Curzio Malaparte (Prato, 1898 – Roma, 1957). Una
parte importante dell’esposizione è stata dedicata ai reportage fotografici che
lo scrittore ha realizzato fra il 1939 e il ’41 come inviato del Corriere
della Sera
.
Queste immagini non venivano esposte da oltre dieci anni. Ci è sembrato che
valesse la pena fare qualche riflessione.
Malaparte ha viaggiato in tutto il
mondo. Come giornalista del Corriere si è recato in Africa, in Francia, in Grecia, nei
Balcani, addirittura è arrivato fino in Cina. Durante queste missioni ha
scattato montagne di negativi, ma poi non ha pubblicato nemmeno una foto.
All’epoca la scelta di omettere le
immagini dagli articoli di testo era piuttosto comprensibile.
Malaparte era un sorvegliato
speciale in attesa, dopo le dure esperienze del confino e dell’ostracismo
culturale, di un agognato riscatto. Era obbligato a rigare dritto e a
compiacere le aspettative di un pubblico abituato alla liturgia del consenso.
In sostanza, si poteva “leggere” il Malaparte elzevirista politically
correct
, ma era
molto sconveniente e perfino pericoloso “vedere” le sue prove fotografiche,
perché troppo in odore di fronda e di dissenso. Il Corriere non era certo l’Omnibus di Leo Longanesi o il Tempo di Alberto Mondadori.

Oggi, a distanza di tempo, quella
vocazione alla disubbidienza non provoca più sconcerto o indignazione, anzi il
gesto iconoclasta, l’auto-censura preventiva, per cui è lo stesso Malaparte ad
accettare il distacco metaforico quale unica forma di esternazione possibile,
assume un valore aggiuntivo, perfettamente coerente con gli sviluppi letterari
futuri.
Dall’Africa coloniale
l’“Arcitaliano” porta alla luce immagini non deferenti e mai adulatorie, bensì
sottilmente ironiche. Punito ma non sopito, resta, è vero, come sospettava lo
stesso Mussolini, un inconfessabile recidivo. Quegli scatti, in fondo, benché
antitetici alle fotografie contro-imperialiste che Alfred Eisenstaedt aveva realizzato nel ’35,
restavano sospette di un’indesiderata imparzialità.
Ma cosa fanno vedere, o meglio
cosa nascondono? Ecco, in buona sintesi, se fossero state pubblicate, avrebbero
rivelato un osservatore privo di vis polemica, dedito piuttosto alla
digressione in stile diario intimo che al resoconto dei fatti, coll’intenzione
di “sospendere il giudizio” sulle questioni politiche o ideologiche, lasciando
che fosse la pagina scritta ad agire come una carta assorbente capace di
filtrare ciò che non poteva manifestarsi.
Questa procedura di occultamento
s’intensifica fra l’aprile e il maggio del ’41, quando il “fronte” della
corrispondenza si sposta in Romania, Bulgaria e a Belgrado.

Adesso la partita si gioca tutta
“fuori casa”, l’arbitro implacabile della dittatura sembra potersi dileguare. E
difatti lo sguardo di Malaparte sembra finalmente liberarsi da ogni residuo di
retorica, ma anche da ogni accenno di ingerenza personale. L’autore si mette a
nudo, si toglie la solita maschera istrionico-teatrale e si pone immobile di
fronte all’apparizione della tragedia. Impassibile, come svuotato e raffreddato
quanto lo sono i cadaveri degli animali conficcati nella terra – così come ci
appaiono in alcune immagini – tante masse di corpi informi prosciugati
dall’abbandono.
Il silenzio qui è perentorio.
Anche quando si intravedono alcune sporadiche persone vive, la sua presenza
incombe a estraniare i loro e i nostri sguardi dalla brutalità del conflitto.
La vicenda bellica va ingerita
senza fare diete, senza fare preferenze o differenze, come se l’uomo e la
natura fossero diventate due entità inseparabili. Tutto si è uniformato; non ci
sono più ordini né gerarchie; niente di simbolico ma solo materiale, “basso-materiale”, direbbe Bataille, laddove
l’unica visione possibile coincide con “le macerie delle carcasse”, con le bestie trucidate alla
stregua degli edifici frantumati, entrambi “oggetti” fatti a pezzi e
devitalizzati.

Potremmo dire che, attraverso
queste immagini, si è compiuto un totale rovesciamento della figura del
reporter: l’occhio, in ritardo sul tempo della battaglia, ha rallentato e si è
fermato. La guerra è comparsa nel mirino, ma ha smarrito tutta la sua
flagranza. E tutto questo è proprio l’opposto dell’istanza del reportage. Se il
processo fotografico aspira al silenzio e alla meditazione ulteriore, annulla
il precetto di Robert Capa, l’evangelista del foto-giornalismo, per cui “fotografare
è sempre respirare l’odore della polvere da sparo
”.
Per Malaparte non occorre
mantenere un contatto diretto con il combattimento, perché sarà la prosa con la
sua voce febbrile e incendiaria a far esplodere le pagine della narrazione.
Sarà il vigore sinestetico della parola che, innestandosi sulla superficie
inerte degli strati d’argento, farà “suonare gli odori e i colori”, li farà fibrillare e deflagrare
come per effetto di “una granata da 381”.
La vita “fucilata” nella
fotografia non segna la fine del senso, ma solo la scomparsa (provvisoria)
della sensazione, la quale tornerà a palpitare nella lingua, nell’organo
vivente della parola. Solo allora quella folle impenetrabilità dell’evidenza
fotografica sarà dalla scrittura di Malaparte spalancata come una voragine.

In conclusione, questo “contro-reportage”
ribadisce il valore concettuale del tempo fotografico. La cristallizzazione
dell’istante nell’inquadratura viene abolita a vantaggio di una sua invisibile
mobilità interiore: il “noema” della fotografia, come direbbe Barthes, è sì l’interfuit, l’“è stato”, ma sempre riferito
all’attenzione di qualcuno. Ossia, l’azione del tempo, che è inevitabilmente
determinata dalla partecipazione di un soggetto, si sposta fuori dall’immagine,
(r)esiste in quella zona “cieca” di preservazione che è la memoria, laddove il
tempo non si ferma mai.
Walter Benjamin amava pensare che
certa fotografia “surrealista” fosse come una “porta girevole” che spinge l’attenzione verso
l’esterno e al tempo stesso la respinge verso l’interno, dentro un paesaggio di
memorie interiori. Anche Malaparte recupera gli “spettri” rimasti muti nel
tempo della realtà per reincarnarli nella pelle, nelle viscere, nel corpo
vivente del romanzo. La fotografia, deprivata da qualsiasi diritto di
visibilità e occultata per oltre mezzo secolo, in fondo non aveva mai smesso di
parlare di sé.

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pierfrancesco frillici

[exibart]


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