Guido Rey e lo scenario artistico europeo fra Otto e Novecento

di - 29 Maggio 2003

Abbiamo visto nel precedente approfondimento fotografico come l’opera di Rey sia peculiare rispetto al pitorialismo coevo, tanto che le sue immagini sembrano anticipare il cinema piuttosto che scimmiottare la pittura. I Tableaux vivants di Guido Rey (1861-1935), precorrono infatti secondo me un tipo di immaginario che di li a poco sarà peculiare della “fotografia in movimento” e anche se gli allestimenti di Ray sono più sobri e meno “fragorosi” delle sale di posa allestite in campo cinematografico dal contemporaneo Méliès, col cineasta francese Ray condivide la dimensione immaginativa, Méliès è tra i primissimi infatti a voltare le spalle al documentarismo alla Lumière che caratterizzava il cinema dei primordi.
Nato in Francia nel 1895, dalle fatiche dei fratelli Lumiere, il cinematografo ambiva ad una riproduzione ancor più realistica di quella fotografica, potendo vantare rispetto a quest’ultima l’esibizione del movimento. Inizialmente pervaso da intento documentaristico, il cinema si trasforma nelle mani di Melies (non per nulla ex prestidigitatore) in una fabbrica d’illusioni, nel luogo in cui l’esotismo, inteso come fuga dalla quotidianità, trova la sua ragion d’essere. A ben vedere, con le sue messe in scena approssimative, debitrici più dell’immaginazione di massa che della rigorosa ricostruzione storica, Melies è più simile ad un Von Gloeden che a Guido Rey. Sia Wilhelm Von Gloeden (1856-1931) che Georges Méliès (1861-1938), usavano infatti dei veri e propri teatri di posa con tanto di fondali dipinti ed il kitsch presente nelle loro opere era un’attrattiva commerciale, visto che sia le cartoline fotografiche del primo che i film del secondo si rivolgevano ad un pubblico popolare. Ma la differente cifra stilistica di Rey non deve trarci in inganno, si dimostra solo più funzionale a veicolare lo stesso concetto (la concretizzazione dell’immaginario) ad un pubblico più raffinato e colto, qual’era quello che frequentava i Salon espositivi. In altre parole cambia la confezione ma non il contenuto.
Anche formalmente l’opera di Rey si discosta dal pittorialismo canonico: da quello inglese perché solo raramente l’ambientazione è situata en plein air e per di più negli interni il taglio dell’inquadratura lascia intravedere ampie porzioni di spazio rispetto ai tagli “claustrofobici” stile Cameron. Le pose dei personaggi sono poi antitetiche, nella loro naturalezza, alle posture teatrali ricercate dai “fotografi preraffaelliti”. Il tutto allo scopo di rendere verosimile e quindi credibile il viaggio nel tempo cui si sottopone il fruitore dell’opera; una diegesi altrimenti impossibile attraverso l’onirismo idealizzante ostentato dalla scuola inglese. Anche “l’ariosità” delle sue immagini ha poco a che vedere con l’utilizzo del flou fatto dagli altri pittorialisti, soprattutto francesi, come R. Demachy (1859-1938) e E. J. C. Puyo (1857-1933), i quali ricercavano nel flou un effetto formale simile a quello della pittura impressionista. Un effetto che nelle intenzioni degli autori era teso a nobilitare la fotografia rendendola simile ad un dipinto, oltre che dal punto di vista formale da quello materico. In realtà la lieve opalescenza nelle foto di Rey, del resto verosimile come la luce che la provoca, favorisce l’introspezione dei personaggi evocando un senso di magica sospensione del tempo, rendendoci i personaggi soli con se stessi e ignari dell’operatore come nella migliore tradizione holliwoodiana.
Pur attraverso diversi gradi di spettacolarità, il “non far sentire la macchina” è sempre stata una costante hollywoodiana, necessaria per entrare efficacemente nella storia del film ed è interessante notare come la fotografia dei film di Ridley Scott (inglese, hollywoodiano d’adozione), abbia non poche analogie con l’opera del nostro Rey. Anche Scott mette infatti in scena “realtà” immaginarie estremamente verosimili, sia che si tratti di una ricostruzione storica (I duellanti) o di un’improbabile futuro (Alien, Blade Runner) ed entrambi ci presentano “realtà” intime, formalmente opalescenti, cui abbiamo il privilegio di assistere come dal buco della serratura. L’intimità (in)violata, di cui ci compiaciamo di essere spettatori invisibili, oltre a soddisfare la curiosità vojeuristica che è in ognuno di noi, ci permette di presenziare alla proustiana “propria assenza”.
Seppur fortemente debitrice dell’immaginario, la poetica di Rey, come quella di Proust, si esplica comunque all’interno della tradizione naturalista moderna che dall’Ottocento impera in letteratura e più in generale in tutte le arti. Il naturalismo serve a concretizzare efficacemente l’immaginario di cui si diceva prima, per questo troviamo nell’opera di Rey la ripresa dell’istituzione teatrale, anch’essa ottocentesca, della “quarta parete” (una strategia che ha la funzione di immettere lo spettatore nella realtà in corso di svolgimento: la realtà in scena non si rivolge più al pubblico, ma si autorappresenta naturalmente come se fosse tra quattro mura). In questo tipo di contesto la fotografia, potendo vantare un innegabile surplus di realismo, dovrebbe trovarsi in una posizione privilegiata rispetto agli altri mezzi di rappresentazione essendo immune, nell’immaginario collettivo, dalla finzione implicita nelle altre arti imitative. Ma, paradossalmente, sarà proprio questa la causa della sua squalificazione dall’ambito artistico di serie A che, legato in quei tempi ad un “saper fare”, vedeva con sospetto una così naturale riproduzione della realtà.
Il pittoricismo di Rey in conclusione appare tale solo nella scelta dei soggetti, obbligatoriamente mutuati da quella che era la pratica di registrazione visiva più realistica fino al fatidico 1839: la pittura naturalista. Soggetti funzionali, grazie alla loro stratificazione nell’immaginario collettivo, a materializzare senza ombra di dubbio (e qui entra in gioco la credibilità scientifica della fotografia) un viaggio nel tempo, quasi una prestidigitazione alla Méliès. Ciò che si evidenzia è invece la maniera in cui quest’immaginario ci viene proposto: una maniera straight, diretta, senza orpelli decorativi, né ritocchi, né luci “metafisiche”. Da qui parte oltreoceano il modernismo americano, che conferirà alla fotografia internazionale autonomia e consapevolezza, veicolato dalla prestigiosa rivista Camera Work, sulle cui pagine Guido Rey è stato, non a caso, l’unico italiano presente.

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roberto maggiori

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