Teye Gerbracht Auszüge aus "Gespenster" (dt.: Estratti da "Ghosts") 2018/19 Fotografia, Stampa a Pigmenti su Carta Torchon, incorniciata circa 29,8 x 21,3 centimetri
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Teye Gerbracht.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Per mostrare luoghi che altrimenti la maggior parte non oserebbe visitare. Per rendere visibile il remoto e il nascosto. Per creare nostalgia in un mondo quasi disincantato. Per risvegliare il desiderio di solitudine nei boschi e di frugare nelle cantine buie. Per risvegliare tutti i fantasmi, i fuochi fatui e le streghe e ballare nella notte con loro».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Per gran parte della mia carriera artistica ho sempre viaggiato in luoghi remoti e dimenticati e ho cercato di catturarli fotograficamente e di dare a queste immagini l’attaccamento ai sentimenti che questi luoghi suscitano in me. Ho sempre inteso e utilizzato la fotografia come mezzo pittorico. Non mi è mai interessato vedere questa tecnica come puramente documentaristica. I pittori della fine del XIX secolo hanno avuto la maggiore influenza sul mio lavoro, quindi considero anche il mio lavoro come un lavoro pittorico. Quindi preparo la scena, aspetto la luce giusta, cucio e costruisco oggetti di scena, a volte illumino anche una grotta. Questi luoghi sono un palcoscenico e il treppiede è un cavalletto».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«In passato ho sempre dedicato più tempo al mio lavoro che alle pubbliche relazioni. Certamente metto costantemente ostacoli sulla mia strada, ma il mio appetito per il lavoro è ininterrotto: la mia energia per affrontare il marketing è piuttosto bassa, purtroppo.
Detto questo, mi piace esporre il mio lavoro e confrontarmi con i feedback, le reazioni e le interpretazioni dei destinatari. Tuttavia, non gioco al “gioco dei social media”. Per me è in qualche modo profondamente ripugnante. Mi deprime e mi rende triste. Per ogni ora che devo affrontare una cosa del genere, me ne servono due nella mia grotta preferita nella foresta, con la faccia premuta nella terra fredda. Ma basta con la “teatralità”».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Questo è un problema o una domanda continua. Penso che viviamo, soprattutto come artisti, in uno dei tempi migliori in cui si tratta di cercare le cose e trovare ispirazione. Presumibilmente questo funziona solo finché non cerchi costantemente di trasformarti in qualcosa che non sei o non puoi essere. Come artista, l’importante dovrebbe essere soddisfare la propria voglia creativa e non diventare il prossimo famoso tesoro del palcoscenico. Anche l’arte si svolge nell’ombra. Dovresti anche trovare il coraggio di creare lontano dagli occhi del pubblico. So che è difficile da accettare in tempi in cui la maggior parte delle persone conta i propri followers e i propri “Mi piace”, ma se è tutta una questione di fama e il tuo lavoro e il tuo impegno non sono in primo piano, potresti semplicemente “diventare” uno di questi cosiddetti influencer.
In realtà non mi vedo né mi presento solo come pittore, fotografo o scultore. Mi vedo come un artista. A volte devo fare uno, poi l’altro. A volte più cose insieme. In ogni caso, credo che non dovremmo perdere troppo tempo cercando di creare un’immagine particolare, ma metterci al lavoro. C’è così tanto da fare e così poco tempo.
Sono piuttosto contrario ai ready-made e simili. Ne abbiamo semplicemente troppi in questi giorni. In tempi in cui posso stampare e appendere quasi tutto con pochi clic, la magia sta nella realizzazione delle mie idee e del mestiere associato, nel lavoro stesso, nel tempo impiegato. Altrimenti il resto del concetto di arte si dissolverà e sprofonderemo definitivamente e completamente nell’insignificanza del postmodernismo. Penso che sia di nuovo tempo per gli “ornamenti” e un po’ più di artigianato nell’arte. Ma questa è solo la mia opinione».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Agli occhi del mondo siamo tutti prima di tutto esseri umani. La parola artista si riferisce esclusivamente alla nostra attività. Come accennato in precedenza, mi considero anche un artista. Sono diventato completamente indifferente a come il mondo potrebbe altrimenti vedermi».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Nessuno. Per dirla metaforicamente, sto cominciando ad apprezzare il mio ruolo di una sorta di sussurro distante nella foresta. Vieni, ci sono i biscotti…».
Nasce a Remscheid, vicino a Düsseldorf. Ha studiato Belle Arti presso la Kunstakademie di Düsseldorf con il Prof. Martin Gostner; il suo lavoro è stato esposto al ETC Colonia, Kunstsammlung NRW e presentato in diverse riviste e pubblicazioni online.
«Nei suoi lavori principalmente usa il mezzo fotografico e “abita” i luoghi; perlopiù ambientazioni isolate e decadenti, case barocche e ottocentesche (recentemente un lungo viaggio poetico e di introspezione lo ha portato a Palermo e nel sud Italia a ritrovare e assaporare decadenze e climi che gli sono famigliari) spoglie e abbandonate, colorate da luci calde ad avvolgenti ma anche foreste o interni domestici quotidiani tutti però descritti nel loro vuoto, a volte riempito col suo corpo, a volte privato anche di quello», Francesco Arena.
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