L’arte come espressione di una continua ricerca interiore, come uno strumento attraverso cui rileggersi, tentando di decifrare quel flusso di ricordi, immagini e sensazioni di cui si compone il nostro vissuto e che non è mai di facile lettura. Appare questa, in sintesi, la ricerca -fondamentalmente autobiografica- condotta da Alfonso Firmani (Udine, 1956).
Nelle sue tele, infatti, sono spesso ritratti i volti degli amici e delle persone a lui più vicine. Primi piani serrati da tagli fotografici e dipinti con tonalità calde, bruciate. Le immagini, nitide a distanza, si rivelano segnate se osservate da vicino. Tratti di pastello ben visibili, ma soprattutto una sorta di scrittura rapida, un vero e proprio testo che si srotola nelle opere. Senza stravolgerle, ma operando in modo controllato. Questa trama di interventi, sorta di struttura ulteriore dell’opera, non è astratta ma formata da un corsivo nervoso, dalla valenza simbolica e decorativa.
E la scelta di utilizzare questo specifico segno scritto non è casuale. Osservando queste opere, infatti, vengono in mente più parentele letterarie che pittoriche. La concezione del tempo di Marcel Proust, il flusso di pensieri di James Joyce, l’evoluzione creatrice di Henri Bergson. Anche qui si rivela centrale tanto la tematica del trascorrere del tempo e della sua percezione -soggettiva e continuamente variabile- quanto l’importanza della memoria, dell’evocazione che spesso modifica, più o meno impercettibilmente, la visione – e di conseguenza la comprensione – di ciò che è già trascorso.
La pittura diventa, dunque, strumento di autoconoscenza ma controllato, mediato dalla razionalità, evitando soluzioni formali vicine, ad esempio, al segno espressionista o informale.
Anche i libri-oggetto realizzati da Firmani si inseriscono in questo contesto, ancora una volta riallacciandosi all’universo letterario. Intitolati Babele, rimandano all’omonima biblioteca protagonista di un racconto di Jorge Luis Borges. I grossi volumi, aperti e collocati su tele quadrate, sono stati letteralmente cementificati con strati e strati di colla, garze e colore, “…resi impenetrabili come corrispondessero a lingue remote…” spiega lui. Una celebrazione che, celandone il contenuto, li relega però a un’enigmatica inutilità.
elena londero
mostra vista il 18 settembre 2004
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