Una grande sala vuota. Tutto intorno, appesi alle pareti, trenta lavori. Tutti della stessa dimensione (un metro per settanta centimetri), tutti in bianco e nero. Inizia con questo effetto scenico la visita alla mostra di
Giovanni Frangi (Milano, 1959), più che mai scaturita da una tensione mai soddisfatta verso la conoscenza della natura.
Memore della lezione di
Jackson Pollock e di quella tendenza secondo cui nell’opera d’arte l’artista conta più dello stesso atto creativo, Frangi ha sviluppato con un’impronta assolutamente originale l’interesse verso la scienza, con cui ha tessuto una rete di riferimenti. Scenografici giochi di luce, contaminazioni interdisciplinari, sperimentazione di nuovi materiali, queste le direzioni scelte. All’insegna della conoscenza della natura, in cui immergersi attraverso un procedimento cognitivo simbolico, che diventa inevitabilmente interpretazione dei fenomeni, risposta ai perché dell’uomo.
Chi si pone al centro della stanza coglie in un colpo d’occhio la serialità della natura colta attraverso la riproposizione di fiori e piante stilizzate, che sembrano uguali ma sono in realtà differenti l’una dall’altra, non solo per le trame di linee scure, ma anche per la consistenza e la rarefazione del colore. Si confrontino
Sunflowers I e
Sunflowers V, prima da lontano e poi da vicino, per scoprire come Frangi si sia divertito a scompigliare l’assetto visivo, a giocare con gli effetti prospettici.
Tra gli elementi significativi spicca la tecnica usata, il
carborundum, caratterizzato dalla presenza della polvere di silicio che, posta sulla lastra di zinco, esalta l’effetto materico (la tecnica è stata messa a punto dallo stampatore
Corrado Albicocco, cui si devono le tavole esposte), come si vede in
Huntington, in cui la luce obliqua mette in risalto lo spessore del colore nero, tanto denso da sembrare asfalto appena messo in posa.
In altre tavole, invece, si inverte il rapporto pieno/vuoto, tra materia e tratto di colore sfrangiato, e si intuisce il piano ideativo del’artista, che nella elaborazione pittorica è passato attraverso tre momenti: la stilizzazione degli elementi naturali, la trasformazione in simboli e, infine, la metamorfosi dei simboli in altra forma, in un percorso parallelo a quello della natura.
La scelta del nero per la rappresentazione di fiori, che chiederebbero un tripudio di colori, è definita dal curatore Giorgio Verzotti come “
azzeramento del colore”, atto conclusivo della tendenza di semplificare la descrizione, di ridurre al minimo gli elementi rappresentativi. Così il segno-colore si muove creando intrecci di linee e di curve e inventando figure sorprendenti, come
Camellia o
Nageire, i cui enormi petali volteggiano nel bianco assoluto come farfalle.