Antonio Pedretti, per i suoi dipinti, ha scelto di rappresentare i paesaggi lacustri della campagna lombarda, fatti di colori declinanti e soffusi, ma trasfigurati dal sogno e dalla memoria. Nascono così quelle “paludi”, che gli hanno dato un grande successo di critica e pubblico.
Lombardo d’origine, Pedretti (nato a Bardello, Varese, nel 1950) continua una tradizione paesaggistica che, partendo da Gola giunge fino a Morlotti. “Della tradizione lombarda – egli dice di se stesso – credo di avere ereditato lo sguardo ampio, la propensione a calarsi nella natura. I miei colori umidi, soffusi e sommessi, possono considerarsi lombardi. Nella mia pittura c’è un sentimento laico, legato alla concretezza dei processi naturali”.
Non a caso Enrico Crispolti ha sostenuto che Pedretti è attaccato ai paesaggi del lago di Varese “più di quanto forse lo sia stato Morlotti allo spaccato delle rive dell’Adda”. Ma la suggestione che emanano queste tele suggerisce più vasti richiami, ben al di là della tradizione paesaggistica lombarda.
Ripercorrendo con la memoria l’avventura della pittura dell’Ottocento inglese e francese, è possibile tracciare una mappa dei porti da cui salpa Pedretti: dagli studi marini di Constable, ai tempestosi naufragi di Turner, dagli impasti cromatici di Courbet, alle magmatiche ninfee di Monet, la sua pittura è percorsa dalle tracce di un genere pittorico – il paesaggio – di cui Pedretti è erede e insieme innovatore.
Ciò non toglie una evidente preferenza del pittore lombardo per l’ultimo di questi grandi maestri del passato: Monet, di cui egli predilige, tra l’altro, l’uso di tele di grande formato: “Una delle invenzioni di quel genio della pittura – ha affermato Pedretti – è stata proprio quella di dipingere delle tele così grandi da coinvolgere lo spettatore da ogni parte. Sino alle ninfee la pittura di paesaggio era stata concepita come veduta, come se il paesaggio fosse visto attraverso una finestra, che era la cornice. Con le grandi ninfee invece il paesaggio e la natura si materializzano intorno”.
Tuttavia, dal “dripping” di Pollock ai graffi di Hartung, la sua pittura attinge anche alle avventure artistiche più moderne dando al tema tradizionale del paesaggio una spiccata modernità. Per Pedretti il paesaggio è un’esperienza interiore, così che la natura rappresentata nei suoi quadri evoca un modo profondo, misterioso, quasi simbolico, che tiene conto delle sue esperienze precedenti (da un esordio figurativo negli anni Sessanta all’Informale negli anni Settanta).
Come ha giustamente affermato Crispolti nel catalogo della mostra personale di Pedretti a Palazzo dei Diamanti, “personalmente dove più Pedretti mi convince è quando la sua immersione vegetale palustre giunge a un livello come di effettivo smarrimento: proprio quando lo sguardo ravvicinato gli fa come perdere il controllo delle coordinate del paesaggio, e di questo è capace di restituirci il fondamento materiale, vitale, come assoluto”.
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