“Ognuno ha la sua luce”. Come quella cercata e colta -nella natura e nei paesaggi- da Raimondo Sirotti (Bogliasco, 1934). La Loggia degli Abati di Palazzo Ducale ospita un’antologica che rende omaggio al maestro ligure, ripercorrendone mezzo secolo di attività. La luce a cui si riferisce Sirotti è quella della sua terra, spunto inesauribile di ricerca artistica e personale. Ma nelle sue opere, della realtà traspare soltanto l’impalpabile memoria; gli oggetti rivivono attraverso uno sguardo intimo che li trasforma in un essenza altra, in continuo divenire. Così, in un percorso allestito in modo tale da dare voce alle opere, con soluzioni che alternano semplicità, modernità ed utilizzo scenografico delle strutture cinquecentesche, si snodano cinquant’anni di vita e pittura. Un viaggio di maturazione personale ed artistica che prende le mosse dall’universo sironiano, in un’iniziale attenzione verso le architetture storiche, con un progressivo spostamento verso i dettagli. Quasi uno zoom sul fascino dei muri scrostati, delle mescolanze tra luce e materia. Nel periodo milanese il pittore attinge dalla pittura informale nuova ispirazione e nuovi spunti: di qui una pittura in cui l’assenza di forme è riempita da presenze di luce. Con il 1968, grazie ad un soggiorno in Inghilterra, l’incontro con la pittura anglosassone: Gainsborough, Turner, Shutterland. Attraverso le citazioni delle forme di Shutterland, corporee e minacciose, l’autore approda all’impressionismo astratto, con un attrazione, questa volta, verso le tane, spazi di rifugio e rigenerazione, interpretate dalle profondità delle cave di ardesia. Sono gli eventi atmosferici, negli anni Ottanta, a proporre a Sirotti nuove riflessioni artistiche: i colori e i tratti si abbandonano al movimento, come trascinati da forze superiori. Negli anni più recenti i soggetti riprendono i loro contorni, ma la maggiore decifrabilità delle forme non significa un ritorno alla semplice rappresentazione, ma un’elaborazione della realtà attraverso la verità, quella ricercata e fatta propria dall’artista nell’arco di cinquant’anni.
Alcune opere sono particolarmente emozionanti, anche per le efficaci soluzioni scenografiche: Canto di insetti notturni (1988) e Paesaggio interiore(1996) lasciano accedere lo spettatore all’universo più intimo dell’artista, mentre in Fichi d’india(1996) è la luminosità che colpisce, togliendo, limando, con un procedimento che tenta di raggiungere il cuore delle cose. Calle: il cerchio rosso (2002) riunisce in sé molti degli elementi che hanno partecipato alla maturazione artistica di Sirotti, che convivendo su uno sfondo rosso lasciano scarse possibilità di non rimanerne attratti. La mostra si chiude con un trittico, scelta più che efficace nel rappresentare la conclusione di un iter intellettuale ed espressivo. Sono ancora le cave, con la loro verticalità, la bellezza intestina forgiata nell’offrire la sua materia, a sollecitare il suo estro e ad arricchire il suo linguaggio.
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