Categorie: Giro del mondo

Biennale di Shenzhen. | Diario di Maurizio Donzelli |

di - 2 Giugno 2018
Quando racconto alle persone che ho partecipato alla Biennale di Shenzhen devo sempre aggiungere che Shenzhen è vicino a Honk Kong, spiego loro quello che ho io stesso imparato: che Shenzhen ha circa12 milioni di abitanti è compresa in una area urbana enorme che supera i 30 milioni di abitanti. La città è modernissima essendo la capitale cinese della tecnologia avanzata, pochi italiani la conoscono.
Arrivare a Shenzhen da Honk Kong è come fare un salto nel futuro, Honk Kong è il passato, non mi sarei mai immaginato una città così dinamica, piena di auto, di negozi e di straordinari grattaceli spettacolari anche nei giochi di luce notturni. La prima impressione è di essere all’interno di una grande bolla che si allarga di giorno in giorno, è una sensazione entusiasmante, anche se avverto un senso di frontiera, un retrogusto quasi selvaggio.
Ascolto loro che parlano in cinese, anche i loro volti sono diversi, pelle liscia, età indefinibili, occhi stretti, una diffusa gentilezza, tutti hanno dei super smartphones in mano e continuano a guardarli smanettando anche quando attraversano la strada, peggio che in Italia penso.
Tra di noi i punti di contatto sono il nostro inglese e Alice che per fortuna parla con disinvoltura il cinese e ci permette di comunicare. Mi chiedo aggirandomi per la Biennale se la lingua e la scrittura sono così alieni a che distanza ci mettiamo con l’arte? L’immagine ci unisce? Come e dove guardo quando guardo le loro opere e viceversa quando loro guarderanno le mie? È la stessa cosa quello che vedono i miei occhi e i loro? L’immagine supera i linguaggi e le differenze?
Cerco un punto di contatto. Dove lo trovo? Chissà in quanti da Marco Polo in su e in giù si sono posti questa domanda. Le nostre merci e i nostri brand li hanno invasi, guardandomi attorno penso che presto sarà il contrario, ma questo è un vero punto di contatto? Sappiamo tutti che le gradazioni di ogni contatto hanno differenti profondità, sia nel personale sia nelle macro-economie.
Ho sempre pensato che l’immagine non sia comunicazione. Detto così, tra le sbornie e gli entusiasmi contemporanei affermazioni del genere fanno di me un minoritario, ma lo scopo della comunicazione è sempre una semplificazione direzionata del senso del messaggio.
Mentre mi predispongo a costruire la mia sala nel Museo Louhu sento rafforzarsi questo pensiero. Che ingenuità credere che l’immagine sia una lingua decodificabile, che possa essere spiegata e tradotta, io credo che sia un mistero davanti a cui ogni uomo a ogni latitudine si misura; certo ognuno ci mette dentro parole e concezioni derivate da una cultura appresa, ma in questo modo quello che tratteniamo non potrà mai esser (per fortuna) chiaro e esauriente.
Forse è il silenzio e il vuoto che unisce i nostri sguardi, le nostre esperienze ci pongono lì davanti a guardare, quello che guardo è ancora una miscela tra la mia identità e il nuovo, nascosto nell’immagine.
Quando comunico quello che comunico è solo quanto mi occorre per letteralizzare il mondo, trasformarlo e ridurlo in concetti, mi occorre anche questo per aggirarmi tra le cose, ma di fronte all’opera d’arte per fortuna ogni direzionalità comunicativa si interrompe, deviando.
Certamente alcuni aspetti di questo problema appartengono di diritto alla filosofia e alla logica, spesso alle neuroscienze perfino alla sociologia o all’estetica, ma la visione ha sempre un carattere soggettivo difficilmente ponderabile.
Un taxista mentre ci corre accanto una lunghissima barriera di filo spinato ci dice (in cinese) che quello è il confine tra la Cina e Honk Kong. Si tratta di un’alta rete metallica dall’aspetto militarizzato, poi un grande campo vuoto senza alberi di un chilometro circa in fondo al quale intravedo una seconda rete. Il vuoto in mezzo sembra la pista di un aeroporto, brulla e pulita.
Vista da qui Honk Kong per noi è anche l’Ovest o l’Europa, l’antico colonialismo, un pensiero differente?
Se le barriere e i confini nel mondo sono così tanti, ancor più smisurata è la barriera dell’immagine, smisurata perché capace di dilatarsi dentro di noi senza un preciso calcolo della misura, avvertiamo in essa un senso di sconfinatezza che ci mette in rapporto con la sconfinatezza incommensurabile dell’universo.
Questo smarrimento e questo ricercare ci accomuna, spettatori con in tasca i propri codici ma anche disposti a perderli a trascurarli per il gusto e la necessità della sorpresa e della novità.
Maurizio Donzelli

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