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Quando si parla di “arte Contemporanea” sembra vincerla sempre una sorta di timore reverenziale (talvolta persino terrore reverenziale), anche quando fa capolino un certo spirito critico. Dunque questa pillola ci fornisce, come premesse: bravi artisti, direttore intelligente, un team curatoriale da stelle michelin, idea geniale; come conclusione: una esercitazione per soldatini ubbidienti (bella definizione: soldatini che combattono una guerra che forse manco loro capiscono, ma fanno quello per cui sono stati addestrati). Come dire: roba archiviabile con più infamia che gloria; come dire: se non la facevano era lo stesso o forse meglio. Mi chiedo, perché quando si parla di “arte Contemporanea” le premesse non sono coerenti con le conclusioni (che invece sono, si vede bene, il punto di partenza), e invece si cerca inevitabilmente di salvare capra e cavoli? Di rinvenire giustificazioni all’ingiustificabile? È sempre un po’ “qui lo dico e qui lo nego”. Perché non si dice pane al pane e vino al vino, cioè che la “arte contemporanea” (per un buon 90%, e spesso quella più celebrata), è show business ed è sostanzialmente inutile, velleitaria e pretestuosa, o appunto utile solo a se stessa? Artigli spuntati. Mi ricorda un po’ il tifo calcistico: la squadra del cuore gioca da far schifo e perde quasi sempre, ma resta sempre una grande squadra, aspettiamo la prossima partita. Boh?! Brisa par criticher… ma lo trovo profondamente ingiusto per quel 10% della "arte Contemporanea" – e per un altro 20% di vaglia ma escluso dal campionato – su cui si sorvola e che langue trascurato. IMHO.