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La lavagna

di - 19 Maggio 2014
I musei trasparenti come cristalli, come è l’Ara Pacis di Roma, hanno fornito la prova più efficace del successo della Notte dei Musei. Se non si fosse saputo che dentro l’Ara Pacis c’è l’altare dedicato da Augusto alla dea Pace, la notte tra sabato e domenica scorsa facilmente si sarebbe potuto pensare che la folla intorno era lì per fotografare l’ennesima celebrità: star cinematografica, calciatore o altro campione della società sfatta, più che liquida. E invece tutta quella folla, più quella fuori in coda, era lì per vedere da vicino il monumento che celebra la pax augustea. Eccezionale idea di marketing e di retorica metropolitana, la trasparenza del museo inventata dall’architettura contemporanea. Grazie alle loro pareti di vetro, permeabili allo sguardo, i musei sono le migliori macchine pubblicitarie di se stessi: fanno vedere quanta gente c’è dentro e invitano altra ad entrarvi. Se non altro per effetto di emulazione. Se sono vuote, invece, sono guai.

All’Ara Pacis quanta gente c’era si vedeva dal Lungotevere, come si vedeva dall’ingresso trasparente del Macro, o nel corridoio sospeso e trasparente del MAXXI. Invece, nei musei che hanno pareti di cemento, la sana voglia di qualcosa di diverso che non fosse tv, calcio, gossip o altra merce del genere, la raccontavano le file fuori. Mediamente a Roma un’ora, un’ora e mezza. Tanto il tempo necessario per entrare in quei luoghi che spesso rimangono vuoti, e che invece quella notte hanno fatto il pieno di 250mila persone. La stessa cosa è accaduta a Milano, a Torino, in qualunque delle 24 città italiane dove ha avuto luogo la Notte dei Musei.
E non basta. Smisurati serpentoni umani si creano anche quando, a primavera, il Fai apre i suoi gioielli. Ma lì c’è l’effetto rarità, la cosa normalmente preclusa, una volta tanto invece eccezionalmente a portata di mano, sia pure pagando il pegno della fila. I musei, invece, sono aperti tutti i giorni (o quasi).

E allora quello che è accaduto sabato scorso come minimo deve suggerire due cose. Primo, il biglietto dei musei spesso è troppo caso: 12 euro oggi sono troppo per tanta gente. I musei dovrebbero costare come il cinema: 8 euro. Anche perché, se è vero che al cinema ci si sta un’ora e mezza e al museo ci puoi stare anche tutto il giorno, è altrettanto vero che al museo ognuno dovrebbe essere libero di tornare anche per rivedere una sola cosa. Solo così, potendoci tornare e ritornare, si capisce quello che c’è dentro e si instaura una “consuetudine naturale” con quel luogo, esattamente quello che manca bel nostro Paese. Consuetudine e conoscenza che troppo spesso 12 euro impediscono di realizzare.
Secondo: ciò detto, le file fuori e le calche dentro dovrebbero dire ai nostri governanti che gli italiani (a modo loro) amano, o sono interessati alla cultura. E all’arte in particolare. Si tratta di quella fetta di pubblico (numericamente imparagonabile con l’audience di prima serata della tv, ma qualitativamente significativa e interessante per la pubblicità) che riempie i festival di filosofia e di letteratura, che spende per alberghi e per treni per sentire il tal scrittore, filosofo o scienziato lontano dalla propria città. Che è disposta a rinunciare a qualcosa pur di spendere quei 12 euro del  biglietto di un museo.
Siamo di fronte a un effetto mediatico? A un rito che si ripete da sei anni a questa parte e che ha per protagonista gente che normalmente non si sogna affatto di varcare la fatidica soglia di un museo e che la varca proprio perché si tratta di un rito? Può darsi, e allora? C’è da storcere il naso se quel giorno, anzi quella notte, di primavera inoltrata, di un sabato del villaggio globale, visto che il rito si ripete in quaranta Paesi del mondo, tutta quella gente decide di passare la notte in uno o più musei, sfidando file e traffico in tilt? Qualcuno ha da ridire? Finché la cultura rimarrà un mondo a parte, incapace di comunicare, vissuta come estranea e purtroppo anche elitaria, i musei e tutti gli altri luoghi dell’arte sono destinati a rimanere vuoti.
Per far sì che “con la cultura si mangi” bisogna cambiare registro, allargandone la base di fruizione, senza scadere nel puro intrattenimento. Si tratta di un equilibrio delicato, ma possibile. Una bella sfida per chi lavora in questo settore e per quei governanti che, altrettanto mediaticamente, si fotografano con l’euro in mano. Ma, una volta tanto, sembrano crederci sul serio.

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