Categorie: lavagna

MUSEOLOGIA

di - 22 Giugno 2017
Inauguriamo una nuova rubrica, i cui antefatti avevate potuto scoprire su Exibart.Onpaper 96. Il tema? La cultura come processo di scambio, che avviene attraverso la ricerca etnoantropologica, e il museo, quel contenitore che negli anni si è evoluto lasciando il posto – talvolta – a un’identità di “contenitore”, ma che invece – per sua natura – deve posizionarsi come uno spazio ibrido che possa parlare dell’uomo e del suo sapere mantenendo ancorata una coscienza del passato per non scivolare sul presente, e mantenendo lo sguardo nel tracciare un’ipotetica linea del futuro del sapere dell’uomo.
Il museo non è un’istituzione necessaria. Sempre chiamato a riaffermare il proprio diritto all’esistenza nel sistema della cultura e nella società, pone continuamente in discussione non solo la sua pratica ma anche se stesso, il modo e il senso della sua presenza nel mondo. In bilico tra teoria e prassi, un museo deve saper conciliare esperienze opposte: una tensione alla storicizzazione e uno sguardo alla contemporaneità, mostrando la capacità di adattarsi di volta in volta alle circostanze presenti. Tale irriducibile conflitto diviene ancora più gravoso se sommato alla difficoltà del museo contemporaneo di farsi carico di una pluralità di storie e oggetti da dover mediare.
“Foreign Gods. Fascination Africa and Oceania” è il titolo di una delle mostre della trascorsa stagione del Leopold Museum di Vienna. L’esposizione ha proposto una comparazione tra alcuni manufatti “esotici” ed opere delle avanguardie moderniste, lasciando emergere l’influenza del formalismo tribale sulla produzione artistica novecentesca.
                                                                 
L’impalcatura della mostra ha riecheggiato numerosi allestimenti che, a partire dagli anni Ottanta con “Primitivism in 20th Century Art” e “Magiciens de la Terre”, hanno suscitato clamore e generato critiche per via dei limiti riscontrati nelle loro impostazioni eurocentriche. La celebre mostra del MOMA ad esempio, affiancando manufatti “primitivi” ad opere avanguardiste, è stata accusata di aver mantenuto l’interesse dichiaratamente su queste ultime, trascurando le funzioni degli oggetti tribali e il loro contesto originario. La parigina Magiciens, sebbene collocasse sullo stesso piano artisti provenienti dai cinque continenti con l’idea di generare un dialogo interculturale, ha voluto tracciare un territorio comune a tutte le opere negli aspetti irrazionali, esoterici e rituali. Molti critici d’arte e diversi antropologi hanno per questo giudicato il progetto generico quanto universalizzante, confuso ed arbitrario nel suo cercare di fissare uno schema di giudizio globale.
A trent’anni di distanza da queste due mostre e alla luce dei discorsi sollevati, l’intento curatoriale della recente esibizione viennese, nonostante il debole accenno alla prospettiva critica postcoloniale con l’opera di Kader Attia, sembra avere nuovamente l’aspirazione di proporre un confronto formale tra opere moderne e manufatti “primitivi”, non trascurando di esibire e celebrare la vasta collezione africana e oceaniana del museo austriaco.
“Foreign Gods” potrebbe essere il pretesto per ripensare all’origine delle collezioni primitiviste europee, ovvero al processo di appropriazione coercitiva esercitato dalle istituzioni occidentali a danno delle culture “altre”. Non è un tema nuovo quello della rivendicazione di alcune minoranze rispetto agli oggetti sottratti al loro uso originario o tradizionale e giunti nelle teche dei musei occidentali. Quest’istanza ha contribuito, nel tempo, a svelare i sistemi di classificazione e interpretazione degli oggetti “esotici” all’interno delle strutture museali. Il museo è emerso allora come istituzione storica, parte di una narrazione occidentale e autoritaria, capace di appropriarsi di un’altra cultura allo scopo di costruire una propria identità in modo oppositivo ad essa.
Come dimostra il progetto del Leopold, l’attitudine a includere in un processo autorappresentativo l’alterità è tuttavia ancora parte integrante di molti progetti espositivi.  Sostanza e funzione non sono mutate, il pretesto è ancora quello della messa in mostra delle differenze culturali delle quali gli stessi oggetti esotici sono veicolo formale. E dunque ritorniamo a chiederci instancabilmente: Chi può assumere su di sé l’autorità di decidere che cosa esporre e quando esporlo? In base a quali criteri? Quale il suo mandato?
Il museo potrebbe farsi carico della parzialità della sua visione purché consapevole ed esplicita, potrebbe abbracciare una modalità espositiva che presenti l’alterità contemplando il contesto di interazione tra culture e la storia, spesso di dominio, all’interno della quale sono transitati i manufatti non occidentali. Sembra infatti questa l’unica possibilità data a un museo dalle ambizioni sempre più globali, destinato a sopravvivere solo se capace di interrogarsi costantemente sulla sua ragion d’essere.
Elisabetta Zerbi

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