L’immagine che sovviene quasi immediata alla pronuncia del nome di
Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna, 1926) è quella tutta novecentesca del monumento al centro della piazza cittadina. Opera di grandi dimensioni, opera d’arte pubblica, emanazione di decisioni scaturite dalla politica locale e dai suoi assessori. I materiali sono metallici con gran probabilità, e rilucenti, almeno in parte. Raramente però recano traccia d’interventi esogeni a spray o acrilico, si tratti di vandalismo o street art. Infine, è quasi certo che ci si figurerà una sfera o una colonna, a base quadrangolare o tondeggiante. In ogni caso, quella forma sarà percorsa da una sorta di geometrico rodimento interno, che ne mostra le
entraille, metalliche anch’esse.
Insomma, non è affatto impossibile che -passeggiando qualche anno fa in piazza Meda a Milano o in qualsiasi altro slargo d’Italia e del mondo ove all’artista emiliano è stato commissionato un intervento- si senta qualcuno commentare negativamente l’intervento stesso. “Difendere” la poetica di Pomodoro non significa d’altro canto deporre gli stili e gli stiletti della critica. Detto altrimenti, non significa che ci s’impedisca di appuntare al maestro una certa stanchezza in alcune sue tarde sculture; così come non comporta affatto che sia proibita la contrapposizione a un modello politico che ha imposto ai propri cittadini, in maniera autoritaria e spesso incompetente,
presunti abbellimenti della città, ristrutturazioni, riqualificazioni e quant’altro (l’esempio, ancora milanese, di piazza Cadorna è ormai proverbiale).
Detto questo, e cioè che Pomodoro
si discute eccome, è detto quasi tutto.
Basta comprendersi su questo semplice concetto. Che quando a un’opera o, meglio, a un operato è permesso di non imbrigliare sé stesso e chi ne discetta, allora merita attenzione. Per proseguire con il modello meneghino: lo spiazzo del Teatro Strehler e il suo disco è tuttora oggetto di
vitale discussione, talora perfin animata; della bruttura con la quale s’è creduto di omaggiare Indro Montanelli non se ne parla più. Poiché, come diceva Moretti,
“le parole sono importanti”.
Sostiamo ancora sotto la Madonnina. Certo, a Pomodoro Milano ha dato non poco. Ma se dovessimo soppesare i pro e i contro, almeno in un’ottica
contemporanea, è l’artista ad aver concesso assai più alla città. E non solo e non tanto con la sua arte, bensì sopperendo alla mancanza ormai strutturale di luoghi d’un certo peso, dove si possa proseguire il discorso estetico. E la Fondazione Pomodoro -diretta dallo stesso Gualdoni- è uno di questi. Una Fondazione che, è bene rammentarlo, è dedicata nei suoi spazi espositivi solo in minima parte alle opere dello stesso Pomodoro.
Per tutto il resto, cioè per comprendere quanto e come Pomodoro non sia soltanto rispondente all’immagine di cui si diceva all’inizio, il
Catalogo ragionato è uno strumento imprescindibile. Magari per continuare a criticare, ma con cognizione di causa.